Nelle trattative a livello europeo la Grecia ha avanzato l’ipotesi (invisa ai tedeschi) di convertire parte del suo debito pubblico in perpetual bond, titoli di Stato senza scadenza. Si tratta di uno strumento finanziario che ha una lunga storia dietro di sé, visto che venne adottato inizialmente dalla Gran Bretagna nel XVIII secolo e che il governo di Londra ha deciso di rimborsare il prossimo 9 marzo una parte dei perpetual bond emessi per coprire le spese della Prima guerra mondiale. Ma il concetto di debito perenne non riguarda solo una particolare categoria di titoli, poiché gli oneri gravanti sulle finanze di alcuni Paesi, compresa l’Italia, hanno assunto da tempo un carattere che ne condiziona la vita in modo permanente. Da qualche tempo la questione è centrale per il nostro futuro: per questa ragione, al di là dei problemi economici contingenti, ci è sembrato utile esplorarne gli aspetti di natura culturale. Per esempio il retroterra storico ripercorso in queste pagine da Sergio Romano, con puntuali riferimenti alle vicende del Regno d’Italia. Oppure i risvolti di natura antropologica su cui si sofferma Adriano Favole, smentendo alcune consuete raffigurazioni della teoria economica classica. Per finire con le questioni filosofiche esaminate da Donatella Di Cesare, che ribadisce l’importanza della distinzione tra etica ed economia, ponendo in rilievo la pericolosità del nesso istituito tra debito e colpa morale.
Storia
Sella, Luzzatti & C. Il Dna dell’Italia che risana i conti si è quasi perduto
Era un affare privato dei re ma tutto cambiò con lo Stato moderno
Quello che noi chiamiamo «debito pubblico» fu per molto tempo il debito dei sovrani, vale a dire il «rosso» di un bilancio in cui era difficile separare le spese pubbliche da quelle private. Sino a quando gli Stati furono patrimoniali, i re avevano bisogno di denaro per i loro palazzi, per il corpo delle guardie reali, per le forze armate di cui sarebbero divenuti comandanti supremi allo scoppio di una guerra. Potevano contare su dazi e balzelli, sulla vendita o sull’affitto di pubbliche funzioni, sulla rendita dei feudi di cui la dinastia si era impossessata nel corso della sua storia. Ma se il denaro non bastava, occorreva rivolgersi ai banchieri, soprattutto fiorentini o tedeschi. Durante la Seconda guerra mondiale, quando l’Inghilterra, in linguaggio fascista, era la «perfida Albione», Giovacchino Forzano diresse un film (Il re d’Inghilterra non paga) sul prestito contratto da Edoardo III re d’Inghilterra, intorno al 1340, con due banchieri fiorentini, Bardi e Peruzzi. Era il denaro di cui Edoardo aveva bisogno per la guerra con cui rivendicava la corona di Francia. Vinse molte battaglie, ma non onorò il suo debito e i banchieri fiorentini fallirono.
Molto più cospicua, a quanto pare, fu la somma (800 mila fiorini) che Carlo V, re di Spagna, prese a prestito in Germania, a Firenze e a Genova per comprare i voti dei grandi elettori che nel 1519 lo avrebbero eletto sacro romano imperatore. Il suo maggiore creditore, Jacob Fugger di Augusta, volle una fideiussione per 300 mila fiorini e fu pagato con le miniere di cui Carlo, conte del Tirolo, era proprietario a nord delle Alpi. Nel Settecento la Francia era la maggiore potenza militare europea. Ma le guerre di Luigi XIV avevano svuotato le casse dello Stato e gli aiuti forniti ai ribelli americani contro la Gran Bretagna da Luigi XVI avevano ulteriormente aumentato il debito pubblico. Fu chiamato per risanare i conti pubblici un famoso banchiere ginevrino, Jacques Necker, allora padre di una graziosa ragazzina che diventerà famosa con il nome di Madame de Staël, che impinguò anzitutto le casse dello Stato con la rente viagère, una sorta di prestito a vita che fruttava al creditore una rendita del 10%. Ma ordinò anche una spending review che irritò le sue vittime (pubblici funzionari, aristocrazia) e gli costò il posto. Il suo successore, Charles-Alexandre de Colonne, propose una sorta di prestito forzoso sulle rendite fondiarie che suscitò altrettanti malumori ed ebbe per effetto la convocazione degli Stati generali. Da quel momento la storia del debito francese si intreccia con la storia politica di Francia, dalla Rivoluzione a Waterloo. È una storia in cui i passivi sono rappresentati soprattutto dalle enormi spese militari e gli attivi dal modo in cui la Francia riuscì a distribuire l’onere del debito su alleati e vassalli.
Nella storia del debito, dal 1815 al 1915, esistono almeno due buoni capitoli italiani. Il primo cominciò nel 1861. L’Italia portava sulle sue spalle, al momento della nascita, il debito contratto da Cavour, soprattutto con le banche inglesi, e quello degli Stati preunitari che il Piemonte, per legittimare l’operazione unitaria, intendeva onorare. Un ministro delle Finanze, Pietro Bastogi, creò il Grande libro del debito in cui vennero iscritti tutti i debiti vecchi e nuovi del giovane Stato. Vennero pagati con la vendita dei beni ecclesiastici, la privatizzazione del demanio degli Stati preunitari e, soprattutto, le imposte, fra cui quella particolarmente impopolare sul macinato. Il pareggio fu annunciato da Quintino Sella nel 1876 e fu l’ultimo dono della Destra al Paese prima del suo declino.
Il secondo capitolo appartiene agli anni in cui il presidente del Consiglio era un altro piemontese, Giovanni Giolitti. Per pagare il debito che si era progressivamente accumulato nei decenni precedenti, l’Italia doveva iscrivere a bilancio, ogni anno, gli interessi passivi d’una somma corrispondente a circa 16 miliardi di lire, pari, grosso modo, a 60 miliardi di euro dei nostri giorni. Di quei 16 miliardi circa la metà era rappresentata da debiti contratti a un interesse elevato (il 5%) in anni durante i quali lo stato dell’economia nazionale era alquanto peggiore. Ma agli inizi del Novecento vi erano ormai le condizioni per convertire la rendita più onerosa dal 5 al 3,5%, con un risparmio considerevole per il bilancio dello Stato. Un’Italia più prospera e più dinamica poteva legittimamente pretendere tassi meno elevati. L’operazione durò qualche anno e richiese l’avallo di una grande banca parigina (quella dei Rothschild), ma rimase sempre nelle mani di un uomo politico veneziano, Luigi Luzzatti, che la gestì magistralmente. È lecito sperare che il Dna dei Bastogi, dei Sella, dei Giolitti e dei Luzzatti non sia andato interamente perduto?
Sergio Romano (http://lettura.corriere.it/debates/il-debito-perpetuo/) -
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