Abitudini e mercato spingono a bruciare esperienze in un momento, contraddicendo
la tradizione occidentale devota a ciò che dura. Ma arrendersi all’attimo è anche giusto.
«Scheggia di tempo grande gemma».
E ancora: «Ogni istante vale una gemma inestimabile». Sono i consigli che un
insegnante di zen che si chiamava Takuan scrisse a un gran signore che si
annoiava. Si trovano in uno di quei rarissimi libri che in poche decine di
pagine racchiudono, si può dire, tutto quello che c’è da sapere: le 101
storie zen, raccolte nel 1957 da Nyogen Senzaki e Paul Reps. Un vero
vangelo del transitorio e dell’impermanente. È una sapienza antichissima che si
traduce in racconti leggiadri, rapidissimi, illuminanti. Ma perché sia davvero
una sapienza, poco importa che sia antichissima. E ancora di meno conta il
fatto che venga studiata, appresa come una delle tante astrazioni
dell’intelligenza. Al limite, si potrà anche ignorare il concetto di «zen», che
è solo una parola come un’altra. L’essenziale è che qualcuno, questa sapienza,
la sperimenti effettivamente, la viva in prima persona.
Più che trasmettere un’informazione, allora, un bravo maestro come
Takuan intende scuotere l’uomo importante che si è rivolto a lui, costretto a starsene ore e ore impettito a ricevere l’omaggio
dei suoi sottoposti, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi,
intollerabilmente. Le complicazioni dell’etichetta giapponese hanno finito per
traviare il suo spirito, e il maestro deve tentare di risvegliarlo da una
cattiva illusione.
La verità, ricorda Takuan al potente signore, è che il tempo è
prezioso, è come una gemma inestimabile, e non è mai più lungo di
quello che deve essere. Il segreto del suo valore sta proprio nel dileguarsi
senza lasciare tracce. La nostra vita consiste di giorni, possiamo dire che
vivendo non facciamo altro che passare da un giorno all’altro, ognuno ancora
più effimero di una bolla di sapone. Se ci fosse il modo di conservarlo nel
ghiaccio, un giorno, o di metterlo in una cassaforte, non sarebbe così
inestimabile. «Scheggia di tempo grande gemma».
Ma queste storie orientali, pur così cristalline, hanno sempre
bisogno di essere intese per il verso giusto, che non
sempre è quello più evidente. Se Takuan si fosse limitato a insegnare al suo
annoiato discepolo qualcosa in merito alla natura volatile del tempo, non
avrebbe realizzato nulla di utile. Un passo oltre la conoscenza, c’è la
possibilità di guarire. Non basta prendere atto che ogni «scheggia di tempo» va
considerata in sé, e che è preziosa perché è volatile e volatile perché è
preziosa. Se questa conoscenza è importante, significa che serve a correggere
una stortura che non è nel mondo, ma nel soggetto che lo percepisce. Perché la
nostra noia, o la nostra inquietudine, dipendono da un fatto che non riusciamo
ad assomigliare al tempo.
L’illusione di continuità che governa il nostro io ci impedisce il
godimento dell’attimo, della «gemma preziosa». Di qui la
noia e anche l’angoscia, le sorelle gemelle che il nostro smarrimento non si
stanca mai di generare. E il bello è che, per la mente occidentale, la malattia
si è trasformata in un motivo di orgoglio. La stabilità e la coerenza del
carattere e delle sue reazioni sono considerati degni di rispetto, mentre ogni
condizione puramente temporanea dell’identità è relegata nella sfera
dell’incidentale e del capriccio. Non solo, ma tutte le religioni che prevedono
una retribuzione nell’aldilà di colpe e meriti accumulati in vita, ci
condannano ad essere noi stessi anche oltre i confini della morte, che invece
dovrebbe liberarci una buona volta da tutti i fardelli.
E anche la cultura laica raramente si è svincolata dall’idea che
la durata dell’identità e la lunghezza dei suoi processi siano una garanzia e
quasi una patente di nobiltà. Come se fosse possibile
dimostrare che ciò che avviene di veramente importante dentro di noi abbia
bisogno di un tempo lungo e della tenacia con la quale ci aggrappiamo a un’idea
fissa di chi siamo. Basta che citiamo un concetto come l’«elaborazione del
lutto» di Freud e immediatamente siamo indotti a pensare che un evento
psicologico così importante necessiti di anni per avverarsi in tutto il suo significato.
La svalutazione morale del temporaneo e della brevità, insomma, ha radici
teologiche capaci di attecchire anche in un mondo secolarizzato.
Illuminante, a questo proposito, è l’orrore degli osservatori
bianchi di una volta, missionari e viaggiatori, di fronte a certe
caratteristiche psicologiche e comportamenti di civiltà indigene considerate
«primitive». In I
letterati e lo sciamano, la sua fondamentale ricerca
sull’immagine dell’indiano nella letteratura americana, Elémire Zolla si
sofferma sulle pagine di uno di questi osservatori, indignato di fronte alla
«celerità dei trapassi» nei sentimenti dei pellerossa, che nel giro di pochi
minuti possono variare dal dolore per la morte di un amico al desiderio di
vendetta e alla gioia della festa. Nella prospettiva dei coloni puritani,
questa arrendevolezza all’attimo è un segno palese dell’inferiorità morale dei
nativi. Come spiega benissimo Zolla, l’indiano rifiuta la nostra «solidificata,
organizzabile, sfruttabile coerenza del tempo, che egli vuole anzi mantenere
discontinuo affinché resti al diapason d’intensità».
Non esiste un motivo al mondo per attribuire una maggiore dignità
a cambiamenti di umore più lenti. Eppure, se ci pensiamo bene,
l’errore di valutazione di quei vecchi esploratori dell’America sopravvive,
magari senza connotazioni razziste, nel nostro senso comune. Di una persona che
si riprende da un dolore troppo presto, tendiamo fatalmente a pensare che sia
stata superficiale, che il suo non era un vero dolore. E se non si gode a lungo
una buona notizia, o una fortuna insperata, ecco che sentenziamo: «Non se la
meritava».
Nel dibattito politico o culturale, aver pensato una cosa già da
venti o cinquant’anni, averla pensata prima di tutti, è un motivo di orgoglio e
di propaganda. È molto più raro il timore che
l’eccessiva fissità di un’opinione possa essere un indizio di stupidità: eppure
l’esperienza dovrebbe suggerirci il contrario. Di una figura d’uomo ammirevole
diciamo che, dalla nascita alla morte, «è stato sempre lo stesso». E in modo
analogo, l’unico amore davvero importante è quello che si dichiara eterno.
Sulle confezioni dei biscotti o dei liquori, leggiamo spesso che quel prodotto
è buono perché lo fanno così dal 1880. E ci crediamo volentieri. Ma questi
riflessi condizionati del pensiero e della morale sono fondati su convinzioni
del tutto arbitrarie. La realtà è che ogni forma di discontinuità corrisponde a
un’esigenza vitale insopprimibile, e non c’è senso di colpa ereditario che
possa impedirci di ammettere che quei pellerossa, che tanto scandalo seminavano
per il carattere temporaneo dei loro stati d’animo, in realtà vivevano
pienamente la loro vita, e forse dovremmo sforzarci di imitarli.
Tra l’altro, non è strettamente obbligatorio andare a scuola dai
maestri zen o dai nativi americani. Nella nostra cultura non mancano
certo, a saperli ascoltare, i maestri di saggezza. Sono individui bizzarri e
solitari, capaci di aprire una breccia nel muro delle abitudini. Prendiamo
Stendhal, che fu forse l’uomo più libero del suo tempo devoto e conformista.
Stendhal è molto importante quando si ragiona su queste cose, non fosse altro
perché quello che gli scandalizzati missionari puritani vedevano nei nativi
americani, lui lo riconosce come l’elemento essenziale...del carattere
italiano. Ma per l’inimitabile «reporter» che ha scrittoRoma,
Napoli e Firenze, il giudizio cambia radicalmente di
segno, sconfinando nell’aperta ammirazione.
Solo l’uomo del Nord, osserva Stendhal, ha bisogno della triste
rassicurazione di essere coerente con se stesso. Gli si oppongono gli italiani e, ovviamente, le meravigliose
italiane. Un tipo umano che si potrà definire, senza mezzi termini, «schiavo
della sensazione del momento». Un istinto così radicato, osserva Stendhal, che
gli italiani non hanno nemmeno tanto bisogno di cercare nei romanzi i modelli
da imitare: la loro vita è il loro romanzo, diverso da ogni altro.
Ma l’intuizione più geniale dell’autore della Certosa di
Parma, stupendo e scandaloso poema dell’incostanza, è che, lungi dall’essere un difetto, la volontaria
sottomissione al presente dell’italiano è la radice della «forza del carattere»
che lo distingue tra gli altri popoli. Si ricorderà di questa formidabile
antropologia Friedrich Nietzsche, che amava con lo stesso trasporto sia
l’Italia che Stendhal, e che dedicò uno dei frammenti della Gaia
scienza proprio alle Abitudini brevi. Se qualcosa gli piace, confessa il filosofo, è sempre disposto
a credere che questo piacere sia eterno. Ma arriva il momento in cui «il nuovo
aspetta alla porta», e senza generare il minimo imbarazzo, quell’illusione di
eternità si dissolve. Così gli accade «con cibi, pensieri, persone, città,
poesie, musiche, teorie, ordini del giorno, stili di vita», neanche evocasse le limited
edition di oggi.
È una vera e utilissima lezione di vita, questa pagina della Gaia
scienza: sembra la confessione di un uomo vano, è invece la professione
di fede nel temporaneo del più saggio di tutti gli uomini: il professore
tedesco che sa comportarsi come un pellerossa o un italiano di Stendhal. Senza
peraltro dimenticarsi di aggiungere che la brevità delle abitudini non
significa vivere in una «continua improvvisazione»: che per il filosofo non
sarebbe la libertà totale, ma «un esilio» e una «Siberia».
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