domenica 26 luglio 2015

La bellezza dell'istante

Abitudini e mercato spingono a bruciare esperienze in un momento, contraddicendo 
la tradizione occidentale devota a ciò che dura. Ma arrendersi all’attimo è anche giusto.

«Scheggia di tempo grande gemma». E ancora: «Ogni istante vale una gemma inestimabile». Sono i consigli che un insegnante di zen che si chiamava Takuan scrisse a un gran signore che si annoiava. Si trovano in uno di quei rarissimi libri che in poche decine di pagine racchiudono, si può dire, tutto quello che c’è da sapere: le 101 storie zen, raccolte nel 1957 da Nyogen Senzaki e Paul Reps. Un vero vangelo del transitorio e dell’impermanente. È una sapienza antichissima che si traduce in racconti leggiadri, rapidissimi, illuminanti. Ma perché sia davvero una sapienza, poco importa che sia antichissima. E ancora di meno conta il fatto che venga studiata, appresa come una delle tante astrazioni dell’intelligenza. Al limite, si potrà anche ignorare il concetto di «zen», che è solo una parola come un’altra. L’essenziale è che qualcuno, questa sapienza, la sperimenti effettivamente, la viva in prima persona.

Più che trasmettere un’informazione, allora, un bravo maestro come Takuan intende scuotere l’uomo importante che si è rivolto a lui, costretto a starsene ore e ore impettito a ricevere l’omaggio dei suoi sottoposti, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi, intollerabilmente. Le complicazioni dell’etichetta giapponese hanno finito per traviare il suo spirito, e il maestro deve tentare di risvegliarlo da una cattiva illusione.

La verità, ricorda Takuan al potente signore, è che il tempo è prezioso, è come una gemma inestimabile, e non è mai più lungo di quello che deve essere. Il segreto del suo valore sta proprio nel dileguarsi senza lasciare tracce. La nostra vita consiste di giorni, possiamo dire che vivendo non facciamo altro che passare da un giorno all’altro, ognuno ancora più effimero di una bolla di sapone. Se ci fosse il modo di conservarlo nel ghiaccio, un giorno, o di metterlo in una cassaforte, non sarebbe così inestimabile. «Scheggia di tempo grande gemma».

Ma queste storie orientali, pur così cristalline, hanno sempre bisogno di essere intese per il verso giusto, che non sempre è quello più evidente. Se Takuan si fosse limitato a insegnare al suo annoiato discepolo qualcosa in merito alla natura volatile del tempo, non avrebbe realizzato nulla di utile. Un passo oltre la conoscenza, c’è la possibilità di guarire. Non basta prendere atto che ogni «scheggia di tempo» va considerata in sé, e che è preziosa perché è volatile e volatile perché è preziosa. Se questa conoscenza è importante, significa che serve a correggere una stortura che non è nel mondo, ma nel soggetto che lo percepisce. Perché la nostra noia, o la nostra inquietudine, dipendono da un fatto che non riusciamo ad assomigliare al tempo.

L’illusione di continuità che governa il nostro io ci impedisce il godimento dell’attimo, della «gemma preziosa». Di qui la noia e anche l’angoscia, le sorelle gemelle che il nostro smarrimento non si stanca mai di generare. E il bello è che, per la mente occidentale, la malattia si è trasformata in un motivo di orgoglio. La stabilità e la coerenza del carattere e delle sue reazioni sono considerati degni di rispetto, mentre ogni condizione puramente temporanea dell’identità è relegata nella sfera dell’incidentale e del capriccio. Non solo, ma tutte le religioni che prevedono una retribuzione nell’aldilà di colpe e meriti accumulati in vita, ci condannano ad essere noi stessi anche oltre i confini della morte, che invece dovrebbe liberarci una buona volta da tutti i fardelli.

E anche la cultura laica raramente si è svincolata dall’idea che la durata dell’identità e la lunghezza dei suoi processi siano una garanzia e quasi una patente di nobiltà. Come se fosse possibile dimostrare che ciò che avviene di veramente importante dentro di noi abbia bisogno di un tempo lungo e della tenacia con la quale ci aggrappiamo a un’idea fissa di chi siamo. Basta che citiamo un concetto come l’«elaborazione del lutto» di Freud e immediatamente siamo indotti a pensare che un evento psicologico così importante necessiti di anni per avverarsi in tutto il suo significato. La svalutazione morale del temporaneo e della brevità, insomma, ha radici teologiche capaci di attecchire anche in un mondo secolarizzato.

Illuminante, a questo proposito, è l’orrore degli osservatori bianchi di una volta, missionari e viaggiatori, di fronte a certe caratteristiche psicologiche e comportamenti di civiltà indigene considerate «primitive». In I letterati e lo sciamano, la sua fondamentale ricerca sull’immagine dell’indiano nella letteratura americana, Elémire Zolla si sofferma sulle pagine di uno di questi osservatori, indignato di fronte alla «celerità dei trapassi» nei sentimenti dei pellerossa, che nel giro di pochi minuti possono variare dal dolore per la morte di un amico al desiderio di vendetta e alla gioia della festa. Nella prospettiva dei coloni puritani, questa arrendevolezza all’attimo è un segno palese dell’inferiorità morale dei nativi. Come spiega benissimo Zolla, l’indiano rifiuta la nostra «solidificata, organizzabile, sfruttabile coerenza del tempo, che egli vuole anzi mantenere discontinuo affinché resti al diapason d’intensità».

Non esiste un motivo al mondo per attribuire una maggiore dignità a cambiamenti di umore più lenti. Eppure, se ci pensiamo bene, l’errore di valutazione di quei vecchi esploratori dell’America sopravvive, magari senza connotazioni razziste, nel nostro senso comune. Di una persona che si riprende da un dolore troppo presto, tendiamo fatalmente a pensare che sia stata superficiale, che il suo non era un vero dolore. E se non si gode a lungo una buona notizia, o una fortuna insperata, ecco che sentenziamo: «Non se la meritava».

Nel dibattito politico o culturale, aver pensato una cosa già da venti o cinquant’anni, averla pensata prima di tutti, è un motivo di orgoglio e di propaganda. È molto più raro il timore che l’eccessiva fissità di un’opinione possa essere un indizio di stupidità: eppure l’esperienza dovrebbe suggerirci il contrario. Di una figura d’uomo ammirevole diciamo che, dalla nascita alla morte, «è stato sempre lo stesso». E in modo analogo, l’unico amore davvero importante è quello che si dichiara eterno. Sulle confezioni dei biscotti o dei liquori, leggiamo spesso che quel prodotto è buono perché lo fanno così dal 1880. E ci crediamo volentieri. Ma questi riflessi condizionati del pensiero e della morale sono fondati su convinzioni del tutto arbitrarie. La realtà è che ogni forma di discontinuità corrisponde a un’esigenza vitale insopprimibile, e non c’è senso di colpa ereditario che possa impedirci di ammettere che quei pellerossa, che tanto scandalo seminavano per il carattere temporaneo dei loro stati d’animo, in realtà vivevano pienamente la loro vita, e forse dovremmo sforzarci di imitarli.

Tra l’altro, non è strettamente obbligatorio andare a scuola dai maestri zen o dai nativi americani. Nella nostra cultura non mancano certo, a saperli ascoltare, i maestri di saggezza. Sono individui bizzarri e solitari, capaci di aprire una breccia nel muro delle abitudini. Prendiamo Stendhal, che fu forse l’uomo più libero del suo tempo devoto e conformista. Stendhal è molto importante quando si ragiona su queste cose, non fosse altro perché quello che gli scandalizzati missionari puritani vedevano nei nativi americani, lui lo riconosce come l’elemento essenziale...del carattere italiano. Ma per l’inimitabile «reporter» che ha scrittoRoma, Napoli e Firenze, il giudizio cambia radicalmente di segno, sconfinando nell’aperta ammirazione.

Solo l’uomo del Nord, osserva Stendhal, ha bisogno della triste rassicurazione di essere coerente con se stesso. Gli si oppongono gli italiani e, ovviamente, le meravigliose italiane. Un tipo umano che si potrà definire, senza mezzi termini, «schiavo della sensazione del momento». Un istinto così radicato, osserva Stendhal, che gli italiani non hanno nemmeno tanto bisogno di cercare nei romanzi i modelli da imitare: la loro vita è il loro romanzo, diverso da ogni altro.

Ma l’intuizione più geniale dell’autore della Certosa di Parma, stupendo e scandaloso poema dell’incostanza, è che, lungi dall’essere un difetto, la volontaria sottomissione al presente dell’italiano è la radice della «forza del carattere» che lo distingue tra gli altri popoli. Si ricorderà di questa formidabile antropologia Friedrich Nietzsche, che amava con lo stesso trasporto sia l’Italia che Stendhal, e che dedicò uno dei frammenti della Gaia scienza proprio alle Abitudini brevi. Se qualcosa gli piace, confessa il filosofo, è sempre disposto a credere che questo piacere sia eterno. Ma arriva il momento in cui «il nuovo aspetta alla porta», e senza generare il minimo imbarazzo, quell’illusione di eternità si dissolve. Così gli accade «con cibi, pensieri, persone, città, poesie, musiche, teorie, ordini del giorno, stili di vita», neanche evocasse le limited edition di oggi.

È una vera e utilissima lezione di vita, questa pagina della Gaia scienza: sembra la confessione di un uomo vano, è invece la professione di fede nel temporaneo del più saggio di tutti gli uomini: il professore tedesco che sa comportarsi come un pellerossa o un italiano di Stendhal. Senza peraltro dimenticarsi di aggiungere che la brevità delle abitudini non significa vivere in una «continua improvvisazione»: che per il filosofo non sarebbe la libertà totale, ma «un esilio» e una «Siberia».


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