Nel nostro mondo foodizzato, le poche zone franche che ancora resistono all’invadenza della cucina e della sua dialettica si stanno assottigliando come i ghiacci polari. Una di queste zone franche corrisponde al kit spazzolino + dentifricio: il gesto di lavarsi i denti è, di per sé, negazione del cibo e atto di «purificazione» — non solo simbolica —, momento insomma di drastico stacco dai piaceri della tavola (qualcuno potrebbe interpretarlo come l’«atto zero» con cui ci prepariamo a ricominciare la festa, ma comunque sia è un istante di vuoto). Presto però le cose potrebbero cambiare. Il colosso Procter & Gamble lancia, per ora sul mercato inglese, il dentifricio gourmet che sa di menta e cioccolato, accoppiata che ricorda gli After Eight, sfogliette vendute nella scatola verde. «I soliti dentifrici sono noiosi — recita il claim della pubblicità —. Sii avventuroso, inoltrati lungo le nuove strade del gusto».
Negli Stati Uniti si è già visto di peggio: Mr. Bacon’s costa 5 dollari e 99, è prodotto in Cina in esclusiva per Accoutrements, sulla scatola ha il disegno di uno spazzolino con una bella fetta di pancetta croccante sdraiata sopra. C’è anche il bagnoschiuma, reclamizzato così: «Porta in modo nuovo l’aroma dell’amata pancetta nella tua routine mattutina!». Da una parte all’altra dell’oceano, la tirannia del gusto invece di allentarsi si fa più stretta. Il desiderio di prolungare il piacere che il sapore del cibo ci procura fa cadere steccati che finora avevano retto bene all’onda d’urto. Neppure quando siamo in bagno riusciamo ad evadere dalla «bolla» del profumo di cucina. Perché?
«L’alimentazione è uno dei grandi scenari dell’antropologia del nuovo millennio», scriveva il filosofo Paolo Rossi nel volumetto Mangiare, il cui sottotitolo «Bisogno, desiderio, ossessione» descrive in tre parole la parabola degli ultimi decenni.
Sul fatto che il cibo vada preso sul serio siamo tutti d’accordo: la gastronomia, piaccia o no, fa ormai parte di una sorta di «spirito del tempo» e l’alimentazione è diventata il punto nodale di una serie di tematiche ecologiche, economiche, sociali e politiche centrali per la nostra esistenza. Forse però stiamo esagerando: qua e là emergono forme diresistenza organizzata. Capofila di quelli che vorrebbero mettere un freno allo strapotere del cibo è l’inglese Steven Poole, che dalle colonne delGuardian chiamava alla rivolta al grido:
«La civiltà occidentale sta mangiando fino a rimbecillirsi. Non faremmo meglio a preoccuparci di quello che mettiamo nella testa invece che di ciò che mettiamo nel piatto?». E continuava: «Di questi tempi non è giudicato un segno di preoccupante alienazione annunciare pubblicamente che “la mousse al cioccolato è la cosa che mi emoziona di più” o dire che l’aver cenato al ristorante El Bulli di Ferran Adrià “mi ha fatto piangere”».
Alla vigilia del crollo della Borsa dell’87 a New York girava la battuta: «Quando anche i baristi discutono di Dow Jones è il momento di vendere». Tutti possono discutere di cibo, come di sport o di previsioni del tempo, ma ancora in pochi decidono di «vendere». La maggioranza va in un’altra direzione: l’entusiasmo, anche intellettuale, non è mai stato tanto alto. Il cibo è dappertutto, anche dove non c’è. È «social currency», moneta da spendere in società: insieme alla tecnologia, è vissuto come il settore più innovativo (con gli chef trasformati in brand multipiattaforma).
«Non c’è niente di più identitario del cibo — dice Gianfranco Marrone, semiologo, che cura per Mimesis una collana di filosofia e cucina —. Prendiamo il caso delle ricette: secondo il senso comune si tratta di semplici istruzioni per l’uso, come quelle delle lavatrici e dei telefonini.Testi per imparare a cucinare. Ma non è affatto così. Sono testi ricchissimi, letterariamente rilevanti, che parlando del cibo parlano di noi, dei nostri valori profondi, della nostra intimità. Leggere un ricettario è come godere un romanzo, un sapere con in più un sapore». Esagerato? «L’Artusi è il secondo libro italiano più venduto nel mondo dopo Pinocchio», risponde lui, che per Bompiani ha in uscita un nuovo volume dal titolo scontato: Gastromania.
Così il gusto è diventato, insieme all’olfatto — che comunque sta in posizione ancillare — non solo la nostra fonte principale del piacere, ma anche veicolo di conoscenza e potente motore della comunicazione linguistica. «L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto — sostiene Nicola Perullo nel suo Per un’estetica del cibo —. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte dellaframmentazione cui il nostro sentire è sottoposto».
In crisi d’identità, ci affidiamo dunque alla tavola. «Gustare è un gesto estremo, il gesto più incarnato, un atto fortemente radicato nell’esperienza corporea», riassume Rosalia Cavalieri, che ha appena dato alle stampe per il Mulino E l’uomo inventò i sapori. Poole, riallacciandosi al discorso sulla corporeità, dà una sua interpretazione (e forse, per una volta, potremmo essere tutti d’accordo):
«Mangiare è senza dubbio un piacere più affidabile del sesso, capita più spesso e, secondo i costumi moderni, è più normale goderne in gruppo».
Daniela Monti - Tempi liberi - Corriere della Sera - @danicor
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