Il termine è avanti per definizione: start up. Fa molto americano, ma dietro c’è un mondo nuovo che può contribuire a rilanciare il lavoro, l’occupazione e fare innovazione. Start up è anche un approccio culturaleche va alimentato, insegnato, spiegato, diffuso, supportato e utilizzato per contribuire a rilanciare il sistema Paese in generale e i territori in particolare.
“Con il termine start up s’identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa. Nello start up possono avvenire operazioni di acquisizione delle risorse tecniche correnti, di definizione delle gerarchie e dei metodi di produzione, di ricerca di personale, ma anche studi di mercato con i quali si cerca di definire le attività e gli indirizzi aziendali”.
Questa la definizione che fornisce Wikipedia di start up e fa comprendere il significato di questo termine che sempre più spesso leggiamo e viene citato dai media.
Start up e Agenda Digitale
Quando si parla di start up si tende a pensare unicamente al settore high-tech, all’informatica, alle imprese che lavorano in Internet. Non è così anche se è vero che l’informatica è ormai pervasiva in ogni attività che intraprendiamo e la Rete ci permette di oltrepassare i confini fisici del territorio in cui nasce l’impresa, la start up. Quindi la tecnologia è una componente ormai irrinunciabile per fare impresa. Ma le start up possono originarsi dai settori più diversi e a volte mai considerati. Da qualche tempo, anche nel nostro Paese, si sta acquisendo consapevolezza su quest’aspetto. Tant’è vero che l’ex-ministro Corrado Passera ha dotato per la prima volta l’Italia di un’Agenda Digitale che poi è sfociata (non per nulla) nel Decreto di Crescita 2.0. Un vero e proprio programma d’indirizzo sulle start up, con una proposta di legislazione e di agevolazioni fiscali destinate a queste nuove imprese che, sul modello americano, devono essere snelle, rapide nel partire e se non funzionano, anche nel fallire. Oltre a introdurre regole chiare per ilcrowdfunding, il finanziamento collettivo veicolato sempre più spesso da piattaforme online. A questo proposito, per chi non lo conoscesse, consiglio di scaricare Il dossier Restart, Italia!, redatto da una task force di esperti. Uno strumento per fare dell’Italia un Paese per giovani e imprese giovani (ovvero, per le start up). Sì, perché il fallimento è contemplato nei paesi più avanzati e non viene vissuto come una vergogna, ma come un tentativo andato male che fornisce esperienza per migliorare nel successivo. Oltreoceano è pieno di imprese di successo i cui titolari provengono da insuccessi iniziali.
La cultura del give back
Sono un convinto sostenitore e nutro grande passione per il mondo delle start up. Per questo, oltre alla mia attività professionale, mi interesso e studio molto sul tema. Sono socio di Italia Startup e anche mentore per Innovami, un incubatore che si trova in provincia di Bologna. In questo modo ho sviluppato diverse idee sul modo in cui un territorio potrebbe diventare una culla per l’innovazione e un esempio in Italia e in Europa attraverso le start up, gli incubatori o degli acceleratori.
Proprio in virtù del tessuto imprenditoriale privato esistente in Italia ritengo che occorra sviluppare anche la cultura del give back. Questo termine sottende a un concetto che si basa su due punti. Il primo sta nella disponibilità di chi ha avuto successo nel mettersi a disposizione, gratuitamente, per valutare la business-idea delle giovani imprese e una volta scelte, riversare la propria esperienza sulle stesse. Il secondo punto è l’interesse a finanziare le neo imprese con modalità che possono variare da quella del business angel a quella del venture capital. Diffondere quest’approccio sarebbe un vantaggio per il territorio perché creerebbe un ciclo virtuoso del valore, offrirebbe posti di lavoro e svilupperebbe la capacità di pensare al lavoro in modo innovativo.
Una ricchezza per il territorio
Molti territori nel nostro Paese offrono possibilità uniche per la creazione di start up: dalla meccanica all’energia, dall’information technology alle charity company (imprese dedicate al sociale). Tutte in grado di sviluppare business e ricchezza per il territorio stesso. Un forte e riconosciuto incubatore in grado di far nascere, seguire e fare decollare le nuove imprese generano richieste di nuovi spazi abitativi e per ufficio, aumenta i consumi e la richiesta di servizi (si parla di tre posti di lavoro generati da ogni persona impiegata in una start up per lavanderia, pulizie, ristorazione, eccetera…), induce alla nascita di nuovi nuclei familiari che sono portati a rimanere sul territorio e richiama a sua volta altri capitali. Senza trascurare lo sviluppo di un più forte legame con le università in quei territori dove sono presenti.
Guardare al futuro, ora!
Il tema è lungo e articolato, porterò altri contributi prossimamente. Sottolineo che nulla si ottiene se non con un lavoro metodico, programmato e concreto. È una questione di approccio, di cultura, di cambio di mentalità. E di speranza nel futuro. Un solo esempio illuminante: Israele ha 8 milioni di abitanti, non ha materie prime (come noi), ma questo non le impedisce di essere la nazione con il numero maggiore di start up nel mondo (5000, in Italia sono circa 1300) di cui un buon 50% è quotato al Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici americana). Impiegano 237mila persone e generano il 60% dell’export. Hanno trasformato le difficoltà in risorse, senza ricchezze naturali hanno sviluppato la creatività. Che a noi non manca, come ci riconosce il mondo. Ma il momento è adesso. Se non ora, quando?
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