Li chiamano mandarini. E a ragione, perché l’organizzazione delle burocrazie fu importata originariamente in Europa dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove avevano osservato il complesso sistema di selezione dei mandarini e dalla durata delle loro cariche pubbliche. Ora Matteo Renzi, con giovanile impeto, giura che per lui la “madre di tutte le battaglie” sarà riformare «l’albero mortifero della burocrazia », come lo chiamò Gaetano Salvemini. Bella sfida, con la quale si sono misurati invano nei decenni decine di presidenti del Consiglio e di ministri, dando vita anche ad episodi di rara comicità. Come quando nel 1964 il ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione del primo governo Moro, il socialdemocratico Luigi Preti, indisse un concorso a premi tra tutti i cittadini (150 mila lire) per le migliori idee di riforma dell’apparato burocratico dello Stato. Il povero Preti forse immaginava quella immensa “macchina senz’anima” descritta da Max Weber come un esercito di Policarpo De’ Tappetti ufficiale di scrittura, l’impiegato ministeriale della Roma Umbertina interpretato da Macario in un film di Mario Soldati.
E non come una consorteria di potenti grand commisinamovibili che i ministri se li bevevano in un sorso nei pochi mesi in cui questi restavano in carica. Il professor Sabino Cassese, massimo esperto di Pubblica amministrazione, ricorda spesso come il ministro del Tesoro Gaetano Stammati prendesse ordini in quasi tutto dal ragioniere generale dello Stato Vincenzo Milazzo e per il resto da Luigi Bisignani, che già stava mettendo in piedi il suo “nominificio”.
Naturalmente dell’ingenuo concorso di Preti non si seppe più nulla. Poi a partire dal 1998 leggi diverse hanno disposto che i dirigenti dello Stato più alti in grado siano legati alla durata dei governi, mentre gli altri possono essere nominati nell’incarico per non meno di tre e non più di cinque anni. Ma non molto è cambiato con l’applicazione di un minispoils system nel quale consiglieri di Stato, consiglieri della Corte dei conti, giudici dei Tribunali amministrativi, avvocati dello Stato e giuristi vari, si alternano – più o meno sempre gli stessi – nei gabinetti ministeriali e negli uffici legislativi, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Anche il governo Renzi dovrà fare il suo spoils system nel prossimo mese. E sarà curioso vedere alla prova Marianna Madia, quella giovane eterea messa al ministero per la Pubblica amministrazione e la semplificazione alle prese con mandarini astuti, potenti anonimi, alcuni dei quali affetti dalla sindrome della “leadership tossica”, come la chiama lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, e esperti cultori di “sabotaggio burocratico”.
Le premesse, per la verità, non sono le più incoraggianti. Il ministro ciellino Maurizio Lupi ha già confermato alle Infrastrutture Ercole Incalza, che calca i corridoi di quel ministero fin dai tempi del socialista Claudio Signorile. Mentre l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, è caduto nella rete di Salvo Nastasi, giovane padrone di fatto del ministero, appartenente alla squadra di Gianni Letta, che adesso Dario Nardella, prossimo sindaco di Firenze, preme su Renzi chissà perché per far confer-
Ma si sa, la legge si applica per tutti e si interpreta per gli amici.
Solo tre esempi, per ora, in attesa di vedere che cosa il nuovo governo saprà fare almeno nelle cinquanta poltrone più importanti nella Pubblica amministrazione. Ma già Luigi Einaudi avvertiva: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi che non sono in grado di compierla da soli. Per quanto siano bravi, per riformare devono fidarsi di qualche funzionario, o competente, non interessato, devoto al Paese il quale dica ad essi che cosa devono fare». Sarà brava la Madia, o lo stesso Renzi che rispetto ai suoi ministri sembra comportarsi come un uomo solo al comando? O sarà vero, come dice qualche suo amico, che Matteo si è già innamorato della sacralità di certi legulei capi di gabinetto? Alcuni sono notoriamente «sabotatori burocratici », come li ha definiti sempre Cassese, il quale racconta di un noto capo di gabinetto – forse il suo quando fu ministro della P.A. – contrario a certi cambiamenti nell’amministrazione previsti da una legge appena approvata: «Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge». Ne sanno qualcosa Mario Monti e Enrico Letta che hanno lasciato in eredità 852 decreti necessari per rendere operative le norme varate dai loro governi, scritte peraltro come sempre in ostrogoto, il burocratese che solo i mandarini ministeriali sanno interpretare.
Sono in tutto 3,2 milioni i dipendenti statali e costano 165 miliardi. Pochi credono davvero che il giovane Matteo con la candida Madia possa essere capace di condurli all’efficienza o addirittura a ridurli di 10 mila, cominciando dai capi (e di sfoltire le migliaia di leggi e leggine), per assumerne 1.000 meno adusi ai vicoli oscuri della giurisprudenza e più capaci di adattarsi al nuovo. Lodevole velleità, ma Matteo Renzi deve sapere che “la madre di tutte le battaglie” è contro una mostruosità autorigenerante che Robert King Merton descrisse come un «circolo vizioso disfunzionale» che vive di "incapacità addestrata".
Alberto Statera - La Repubblica - giovedì 27 febbraio
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