Esiste il fallimento ed esiste il «potere del fallimento». Thomas Edison li sperimentò entrambi. Diecimila volte — raccontò egli stesso — vide finire una sua idea nella sabbia; alla decimillesima volta e uno, accese la lampadina elettrica. Il risultato, oggi, sono la General Electric, una delle imprese mitiche d’America, e la fama perpetua. «Non ho fallito — riassunse poi —. Ho solo trovato diecimila modi che non avrebbero funzionato». I fallimenti lo aiutarono a correggere gli errori. Henry Ford affrontò due crac, poi fondò la Ford Motor Company. Un progetto di Steve Jobs fece flop e lui fu licenziato dalla sua Apple. Lo scivolone di Bill Gates si chiamò Traf-O-Data, una società che voleva ottimizzare i flussi di traffico attraverso l’analisi di dati. Da quei passi falsi hanno imparato come si fa.
È che l’America ha un rapporto speciale con il fallimento. Lo rispetta e lo riconosce come qualcosa di importante: da evitare se si può (ma è difficile), però non da considerare mortale. Non è solo parte del processo di try-and-error che porta al successo, cosa abbastanza ovvia. È anche regolatore del mercato, misuratore del merito: caratteristica strutturale e indispensabile del capitalismo. Questo rapporto con il fallimento è una delle qualità che fanno dell’America un Paese a parte, diverso da tutti gli altri e al quale molti, quasi tutti, cercano di assomigliare, a cominciare dal condividerne l’idea che il fallimento non è la fine della strada, ma una semplice curva. L’altra metà del capitalismo tradizionale, l’Europa, Italia in prima fila, ha un’idea differente di che cosa significhi dover abbandonare un progetto, un’impresa e confessarlo in pubblico. Da qualche tempo cerca di copiare gli Stati Uniti. Ma, quando si viene alla bancarotta, l’Atlantico resta un lago che divide. Ancora oggi, se parlate con un vero uomo d’affari yankee, probabilmente vi racconterà che una delle differenze più profonde tra un businessman europeo e uno americano è che il primo non darebbe mai credito a una persona che nella vita è fallita, il secondo non presterebbe denaro a chi non è fallito almeno una volta.
Sociologi ed economisti di solito spiegano le differenze tra i modi d’intendere la vita economica con la cultura cattolica, opposta a quella protestante. Quando si tratta del crac imprenditoriale o personale, non è così o, almeno, c’è di più. L’approccio al fallimento nei Paesi del Nord Europa — pure protestanti e pure coscienti del diritto di rialzarsi — è diverso da quello americano. Inoltre, la sua utilità educativa è riconosciuta in molte culture: «La grandezza — diceva Confucio — non si raggiunge non fallendo mai, ma rialzandosi ogni volta che si cade». A fare la differenza è che negli Stati Uniti l’idea è diventata cultura diffusa e condivisa e, soprattutto, è entrata a far parte del quadro istituzionale e giuridico come uno degli architravi del sistema economico.
È il modo in cui si è formato e sviluppato il capitalismo in America, dal basso e fondato sull’individuo e non sullo Stato, che ha prodotto l’idea di fallimento non più come stigma sociale, non più come colpa, ma come normalità del processo. Come diritto a fallire.
Dai primi decenni dell’Ottocento, l’espansione dell’America — intesa come terra delle infinite opportunità e dell’ottimismo — avvenne intorno ai fiumi, ai canali, alle strade, ma anche attorno al credito, che in poco tempo diventò un vero sistema di obbligazioni tra privati, destinato a sostenere tanto la produzione quanto i consumi.
Già nel 1837, l’Albany Republican Committee sosteneva che «il sistema del credito ha esteso il nostro commercio in tutto il mondo, costruito le nostre città e villaggi, fondato i nostri college e costruito le nostre scuole». Si trattava di crediti diffusissimi, spesso ripagati a lungo termine o protestati; e via via si sviluppò una tolleranza, in qualche modo forzata, verso chi non pagava: per sostenere lo sviluppo complessivo del Paese — necessità che nessuno si sognava di negare — il credito e l’accettazione del possibile default erano visti come indispensabili avamposti verso la frontiera. È il modo stesso di formazione del capitalismo americano a giustificare e a prevedere la fallibilità di chi svolge attività economica.
Il risultato legale e istituzionale è il Chapter 11, il titolo del Codice federale sulla bancarotta che, senza menare scandalo, consente alle aziende che non sono in grado di onorare i debiti di proteggersi dai creditori, mentre il management (di solito lo stesso) ristruttura il business sulla base di un piano concordato. Più in generale, l’accettazione del fallimento si è così radicata negli Stati Uniti che non solo è socialmente ammesso, accettato e parte della formazione di un imprenditore: è anche un regolatore del mercato. Durante la Grande Crisi degli anni scorsi, il punto nevralgico più discusso — e considerato una delle cause del disastro finanziario —è stato il concetto di too-big-to-fail, applicato alle banche troppo grandi per essere lasciate fallire e dunque indisciplinate nel prendere rischi, in quanto sapevano che, in ogni caso, sarebbero state salvate dall’intervento pubblico. La regolazione automatica prodotta dal rischio di fallire era venuta meno, eliminata dalle possibilità imprenditoriali, il che aveva inceppato il sistema. Situazione da correggere. Il fallimento, in altri termini, negli Stati Uniti non è solo parte del gioco, una possibilità ammessa senza doversi vergognare. È una regola indispensabile del gioco.
L’idea si estende dal business alle persone dopo la Seconda guerra mondiale, quando la grande massa di risparmi accumulata in America durante il periodo bellico s’incontra con il desiderio di beni e servizi a cui si era dovuto rinunciare e con il baby-boom: il risultato è l’esplosione della società dei consumi, la quale si fonda via via sempre più sul credito al consumo e sulla necessità che tutti comprino, anche a debito, per andare avanti. Risultato: in America, fallire in affari si porta dietro una «vergogna» assai minore che in Italia e in Europa, molto spesso è normale; e anche fallire nel ripagare i debiti personali è meno devastante che dall’altra parte dell’Atlantico, dove, in molti Paesi, non esistono ancora norme sul trattamento delle bancarotte individuali.
Lo stigma del crac da noi, al contrario, è una forza negativa che frustra l’imprenditorialità e la creatività, che sacrifica la crescita economica e i consumi. Un sondaggio condotto l’autunno scorso da Youth Business International e Global Entrepreneurship Monitor ha scoperto che solo 17 giovani europei su cento ritengono che ci siano opportunità di business disponibili e sono convinti di avere le capacità e le conoscenze per approfittarne. E il 41,9 per cento di loro cita la paura del fallimento come barriera per iniziare un business. Uno svantaggio competitivo considerevole rispetto agli Stati Uniti. Al punto che nel 2010 la Commissione europea ha lanciato un progetto per affrontare «lo stigma del fallimento negli affari» sulla base del fatto che il 57 per cento degli europei non investirebbe in un business gestito da chi in passato è fallito e il 47 sarebbe meno incline a ordinare beni da qualcuno che ha avuto un crac imprenditoriale. Secondo la Commissione, il 48 per cento degli europei ritiene che «non si dovrebbe creare un’impresa se c’è un rischio che possa fallire»: chi dovrebbe eliminare il rischio si immagina che sia lo Stato.
In Italia e in Europa, dunque, non c’è una Silicon Valley, luogo dove il diritto di fallire — in fretta e possibilmente a basso costo — è un totem imprenditoriale. Alla base, la differenza sta nell’idea di capitalismo: quello fondato sulla responsabilità individuale di chi sbaglia e si rialza e quello di chi vuole garanzie prima di accendere la lampadina di Edison.
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