Telecom Italia, Alitalia e governo contemporaneamente in bilico, tutti insieme appassionatamente. E banche sempre più stremate dalla crisi e dalle sofferenze. Intanto molti piccoli e medi imprenditori lombardi vanno a Chiasso ad ascoltare le sirene delle autorità svizzere che li invitano a delocalizzare i loro investimenti. Ce n’è abbastanza da essere scoraggiati. In più, la crescente divaricazione tra la vivace competitività delle imprese italiane, misurata dai positivi risultati meritoriamente ottenuti sul campo, e all’opposto le condizioni di contesto in progressivo peggioramento del sistema paese in cui le aziende si trovano a operare (costi dell’energia, burocrazia, incertezza del diritto, rigidità del mercato del lavoro) è tale da creare una enorme confusione. Una confusione che serpeggia persino fra gli addetti ai lavori, ma che ovviamente tende a diventare massima tra la gente comune, ingenerando nell’opinione pubblica interna, bombardata da dati contraddittori su cui tuttavia tendono a prevalere quelli negativi, un cronico stato di pessimismo e frustrazione. Mentre tra gli osservatori e gli investitori stranieri è sempre più diffusa la pericolosa sensazione, alimentata dalle stesse rappresentazioni apocalittiche che gli italiani danno della loro economia, che il nostro Paese sia entrato in una crisi strutturale senza vie d’uscita. Tutto ciò con grave detrimento per la nostra immagine internazionale e per l’attrattività degli stessi titoli di stato, il cui spread viaggia ormai testa a testa con quello della Spagna.
È su questo sfondo che si è venuta ingigantendo la tesi del «declino» irreversibile dell’Italia, supportata principalmente dall’evidenza che il pil italiano da tempo cresce molto poco (o addirittura è arretrato, come negli ultimi cinque anni) e dal proliferare di indicatori e analisi che «spiegano» tale scarsa crescita principalmente con la mancanza di competitività, ignorando altre e ben più importanti cause, a cominciare dalla pluriennale stagnazionedella domanda interna e dalla perdita di potere d’acquisto delle famiglie. Questo stato di cose rende di difficilissima lettura la stessa diagnosi dei mali odierni della nostra economia, col rischio che vengano formulate ricette non appropriate per porvi rimedio.
La messa a fuoco del problema della competitività italiana è stata inoltre complicata negli ultimi 15 anni da due avvenimenti epocali: la crescente concorrenza dei paesi emergenti portata dalla globalizzazione, che nel primo quinquennio del nuovo secolo ha fortemente pesato sull’andamento dei nostri settori manifatturieri più tradizionali (moda e arredo), e la grande crisi mondiale cominciata nel 2008, che ha inferto un colpo durissimo, soprattutto nel biennio 2012-13, alle finanze pubbliche e ai nostri consumi interni.
La combinazione di questi due avvenimenti e dei loro effetti negativi ha però mascherato due tendenze molto positive, che si collocano in senso opposto a quella del declino. La prima tendenza positiva è che l’Italia ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola notevolmente. Infatti, il nostro Paese, pur riducendo la sua presenza nelle produzioni tradizionali a più basso valore aggiunto del tessile-abbigliamento, delle calzature o dei mobili, si è rafforzato nei segmenti a più alto valore aggiunto degli stessi settori. Contemporaneamente l’Italia si è specializzata sempre di più nella meccanica-mezzi di trasporto, che oggi rappresenta di gran lunga il settore più importante e dinamico del made in Italy.
La seconda tendenza che va evidenziata è che, mentre la recessione mondiale e l’austerità resasi necessaria per l’aggiustamento dei conti pubblici facevano cadere pesantemente la nostra domanda interna, e con essa pil e occupazione, le imprese italiane esportatrici registravano all’opposto eccellenti performance sui mercati internazionali, nonostante un euro ben più forte della lira di un tempo. E oggi centinaia di imprese italiane sono leader di nicchia a livello mondiale per esclusivi meriti propri e non del cambio, generando decine di miliardi di euro di surplus commerciale dalle macchine per l’industria ai rubinetti, dagli yacht agli elicotteri, dai segmenti di lusso delle calzature, degli occhiali, dell’abbigliamento e dell’arredamento alla refrigerazione commerciale, dai vini ai prodotti dell’alimentazione mediterranea. Sta di fatto che il fatturato estero dell’industria italiana, superato il difficile 2009, ha continuato a tirare, mentre sul mercato interno domanda e produzione crollavano per ragioni che, per chi vuole capire come stanno davvero le cose, nulla hanno a che vedere con la competitività. Infatti, secondo stime dell’Eurostat, fra l’ottobre del 2008 e il giugno del 2012 il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese.
Contro l’idea di una catastrofe irreversibile della nostra economia, Fondazione Edison, Fondazione Symbola e Unioncamere presenteranno nei prossimi giorni un manifesto, intitolato «Oltre la crisi. L’Italia deve fare l’Italia», sottoscritto anche dai presidenti di molte associazioni produttive e territoriali. Per lanciare un appello contro la rassegnazione dilagante, per ritrovare un po’ di orgoglio nazionale e invitare le forze politiche a porre gli interessi del Paese davanti a tutto, mettendo finalmente le imprese dell’industria, del turismo e dell’agricoltura nelle condizioni di esprimere tutto il loro straordinario potenziale.
Basti pensare che nel 2012 l’Italia è stata tra i soli cinque paesi al mondo, assieme a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud, a presentare un saldo commerciale con l’estero per i manufatti industriali superiore ai 100 miliardi di dollari. Abbiamo la più alta produzione in valore dell’Ue nei prodotti vegetali ed orticoli e il più alto numero di pernottamenti di turisti extra Ue. Nel 2011, su 5.117 prodotti in cui si può suddividere al massimo livello di disaggregazione statistica il commercio mondiale, l’Italia ha fatto registrare ben 946 casi in cui è risultata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero, per un controvalore di 183 miliardi di dollari. Sempre nel 2011 l’Italia ha presentato un surplus commerciale con l’estero superiore a quello della ipercompetitiva Germania in 1.215 prodotti, che hanno generato un attivo commerciale di 150 miliardi di dollari. Il made in Italy non è condannato al declino. Ce la può fare.
Marco Fortis (http://economia.panorama.it/aziende/dove-italia-economia-vince) Panorama
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