Un elemento di novità in effetti esiste, ed è l’esistenza stessa dei media: non il contenuto (che è antico) ma il supporto dell’informazione. I mezzi di comunicazione di massa — giornali, radio, televisione, cinema, internet —hanno impresso un’accelerazione impressionante alla quantità di dati, di notizie, di discorsi che vengono quotidianamente scambiati nel mondo. Tuttavia, rispetto alle forme tradizionali di comunicazione c’è anche diversità nei contenuti.
Anzitutto, c’è il ruolo predominante del business (anch’esso realtà antica, ma mai nelle dimensioni attuali). L’industria del cibo — che non vuol dire l’industria alimentare in senso stretto,ma tutto ciò che ruota attorno alla produzione e alla preparazione degli alimenti, ai sistemi di ristorazione, al turismo gastronomico — ha spostato sul piano professionale molte attività che tradizionalmente appartenevano all’economia domestica. Molta più gente oggi si affida a «specialisti» per soddisfare il bisogno di cibo (e di discorsi sul cibo). La cucina, intesa nel suo senso più ampio (non solo il gesto «finale» del cuocere e condire, ma la filiera completa delle attività di reperimento, trasformazione e allestimento del cibo) non fa più parte delle pratiche e dei saperi collettivi ma è stata in gran parte delegata a una schiera di professionisti, quasi dei «sacerdoti» a cui si chiede di dare risposte a questo bisogno primario della società. E poiché non c’è business senza marketing, la professionalizzazione delle attività di cucina significa che informazione e comunicazione assumono caratteri sempre più decisamente (anche se non sempre esplicitamente) «pubblicitari». Parallelamente cresce l’esercito dei «critici» che insegnano a riconoscere il buono, a orientare i consumatori verso questo o quel prodotto, questo o quel locale, questo o quel cuoco. È il meccanismo tipico della società dei consumi, ampiamente sperimentato nel XX secolo: creare bisogni per vendere.
Quando la merce è il cibo, il bisogno è reale, addirittura primordiale. Ma il marketing alimentare non fa leva sul bisogno fisiologico di cibo, sul soddisfacimento della fame come esigenza primaria dell’organismo. Perno del discorso non è la sostanza del cibo, o della bevanda, ma la circostanza in cui si beve o si mangia qualcosa, per esprimere e rappresentare emozioni individuali e sentimenti collettivi. L’attenzione (lo notava già Roland Barthes in un celebre saggio sulla psico-sociologia dell’alimentazione contemporanea) in questo modo si sposta sul rito, sulla convenzione sociale, sull’occasione. Valori extra-nutrizionali, di natura culturale più che fisiologica.
Lo stesso tema della salute, un tempo percepito come variante fisiologica della nutrizione, tende oggi a declinarsi in questo senso, coinvolgendo (al di là della salute fisica dell’individuo) la «salute» della comunità e dell’ambiente in cui essa vive: è l’appello al consumo «responsabile» che rispetta la natura, non inquina gli spazi di vita, ha a cuore la dignità sociale dei produttori. Atteggiamenti, tutti, che conferiscono uno statuto nuovo al consumatore, in termini di consapevolezza e di conoscenza. Atteggiamenti che ridimensionano l’aspetto elementare della fame e del bisogno fisiologico, spostando il centro di interesse sul contesto «esterno» del consumo.
Ma a chi si rivolgono questi discorsi? Non sfugge a nessuno che la ricerca del buon cibo, della buona osteria e del bravo cuoco resta un fenomeno minoritario (come sempre è accaduto nella storia, ogniqualvolta le considerazioni sulla fame e la sopravvivenza hanno ceduto il posto ai temi del piacere, della salute o del cibo-spettacolo). La maggioranza dei consumatori non è affiliata alla ristretta schiera di intenditori che si avvicinano al cibo con il piacere della scoperta, la curiosità della sperimentazione, una multiforme complessità di prospettive intellettuali. È a questa minoranza di consumatori che si rivolgono le rubriche specializzate di giornali e riviste, certe trasmissioni radiofoniche e televisive, i blog di cucina che attraversano la rete. È a loro che parlano i cuochi-artisti, esibendosi con modalità e intenti non diversi da quelli di un cantante d’opera o di un attore di teatro. Ma i media non si accontentano di questo: la loro vocazione è parlare a tutti. Ecco allora moltiplicarsi giochi, gare, reality show, lezioni di cucina a tutte le ore e per ogni sorta di pubblico, a cavalcare l’onda di una moda che in modi diversi coinvolge tutti. Ciascuno ha diritto al suo spettacolo.
In ogni caso, il cibo rimane — come ai tempi di Omero e della Bibbia — la cosa più facile di cui parlare, perché, nonostante tutto, il tema conserva un livello di normalità e di accessibilità legato alla natura necessaria e quotidiana del gesto. L’esperienza esclusiva nel ristorante di moda e l’apparizione televisiva dello chef di grido sono aspetti diversi di un discorso comune, contrastanti sul piano sociale e culturale così come un tempo potevano esserlo il trattato di agronomia e le pratiche contadine, le regole delmanuale di dietetica e la saggezza dei detti proverbiali. L’identità di classe, il peso delle ideologie, il senso di appartenenza sociale e culturale rimangono forti, e non bastano una tavola e un piatto di minestra per sentirci (e per essere) tutti uguali.
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