L’alternativa all’abuso della «questione morale» nella politica non deve essere per forza un cinico ritorno alla vulgata machiavellica, quella secondo la quale non si avrebbe nulla da eccepire sui mezzi, anche spregevoli, per raggiungere un fine. Può essere invece un invito alla modestia per chi coltiva l’insana tentazione di farsi fustigatore degli altrui costumi, e di salire su un pulpito, anziché rimuovere le cause materiali, terrene, della corruzione e del malaffare.
Sulla contemplazione della propria diversità morale si costruiscono infatti fragili piedistalli, e anche reputazioni usurpate. Ma l’abuso della «questione morale» produce in ogni caso risultati disastrosi, cancella la politica come possibile rimozione di problemi e assegna alla lotta politica compiti impropri. La politica non dovrebbe avere la missione di sradicare dal cuore degli uomini la predisposizione al ladrocinio, ma di creare le condizioni perché i ladri siano neutralizzati e costretti a condurre una vita difficile. Forse Machiavelli era troppo cinico, ma Savonarola ha creato disastri ben maggiori.
Siamo nel pieno di una campagna elettorale in cui i partiti devono difendersi dagli effetti di una pessima nomea, peraltro egregiamente conquistata sul campo dopo decenni di ostinata cattiva gestione della cosa pubblica. La nomea di associazioni dedite al saccheggio delle risorse pubbliche, veicoli di corruzione, collettori di tangenti, terra di pascolo per clientele e gruppi affaristici che attraverso la politica si procurano i mezzi per un arricchimento smisurato. È fondata questa nomea o è soltanto il frutto di una propaganda demagogica, o «qualunquista», come si diceva un tempo? È, purtroppo, una nomea più che fondata. Assistere allo spettacolo di consiglieri regionali che scialano in cene pantagrueliche i soldi pubblici degli italiani intascati con appositi regolamenti autopromozionali, oppure vedere in ogni parte d’Italia dilagare, a destra e a sinistra, nel Nord e nel Sud, le ruberie consumate ai danni della sanità italiana, tutto questo rende comprensibilmente sospetto l’appello a non abusare della «questione morale» durante e dopo la campagna elettorale in corso, pena l’accusa di voler minimizzare le colpe di chi fa politica per arricchirsi. Tuttavia bisognerebbe insistere: meglio accantonarla, la «questione morale». E non solo per la ragione trivialmente fattuale, eppure difficilmente confutabile, che nessuno degli schieramenti oggi in competizione può rivendicare una purezza cristallina che ne legittimi le pretese di supremazia etica. Ma perché la «questione morale» perpetua un equivoco e concentra l’attenzione sui comportamenti etici e non piuttosto sulle istituzioni e sulle leggi che dovrebbero impedire una deriva «immorale» nel governo dello Stato.
La «questione morale» è entrata prepotentemente nel lessico politico italiano, all’inizio degli anni Ottanta, con il leader del Pci Enrico Berlinguer. Oggi è molto diffusa la tentazione di idealizzare nostalgicamente il passato e fare di Berlinguer un santino. Ma non è mancanza di rispetto per un protagonista giustamente molto amato e stimato della vita politica italiana constatare che l’abuso berlingueriano della «questione morale» fu il frutto di un errore politico e di una distorsione culturale (lo diceva anche Miriam Mafai in Dimenticare Berlinguer: solo che purtroppo è stato dimenticato non Berlinguer, ma proprio quel fondamentale libro della Mafai). L’errore politico (allora blandamente contrastato dall’ala migliorista del Pci, con Giorgio Napolitano) fu quello di voler uscire dall’impasse del compromesso storico sconfitto con un’accentuazione del settarismo, con la sopravvalutazione della «diversità» e con un attacco furioso al socialismo craxiano, accusato di aver corrotto il Psi in una deplorevole e peccaminosa «mutazione genetica» della tradizione socialista di matrice «frontista»,molto poco conflittuale con il Pci. La distorsione culturale fu invece quella di stabilire una insuperabile barriera antropologica tra il mondo comunista, magnificato come moralmente superiore, eticamente integro, e il resto del mondo politico, confinato nel recinto infetto della corruttela e del malaffare solo per il fatto di «non» essere comunista e di non credere nei valori che il comunismo stava storicamente incarnando. Ma mentre l’errore politico è stato riassorbito dai tempi lunghi della storia, l’errore culturale invece ha dispiegato i suoi effetti negativi nel corso dei decenni, tanto da proiettare la sua ombra sulla sinistra italiana, in forme e con parole nuove, sino ai nostri giorni.
L’etica e le macerie
Nel corso degli anni Novanta, durante l’intero arco della Seconda Repubblica, il progressivo abbandono del marxismo ha infatti dato alla dimensione eticizzante una risonanza tutta nuova in una sinistra ex comunista che ha rischiato di essere travolta dalle macerie del Muro di Berlino. Il pertinace rifiuto di confluire, sin dalla scelta del nome del nuovo partito, in unmodello culturale di tipo socialista o socialdemocratico classico ha spinto la cultura lasciata orfana dalla scomparsa del Pci ad abbracciare una cultura di tipo giacobino e «azionista», con tutte le approssimazioni che questa definizione comporta, ma comunque fondata anch’essa su un’idea di due Italie irriducibilmente contrapposte lungo una frontiera di tipo «morale»: l’Italia dei pochi, degli spiriti magni, delle minoranze illuminate, l’Italia civile immersa in un’Italia maggioritaria, ma corrotta nel profondo, volgare, plebea, maleducata, avida, arraffona. Contro quell’Italia materialista, incapace di raggiungere la purezza etica delle minoranze intransigenti e combattive, si scagliarono Giovanni Amendola, censore dell’Italia che «non ci piace», e poi Piero Gobetti, che detestava a tal punto il riformismo socialista e quello «popolare» di don Sturzo (i «partiti del ventre») da intonare l’«elogio della ghigliottina» come estremo rimedio per raddrizzare il legno storto del popolo italiano. E la ghigliottina stava arrivando, portata sui carri che trasportavano le camicie nere nella marcia su Roma che avrebbe gettato l’Italia nella dittatura, facendo dello stesso Gobetti un martire della libertà conculcata.
Forse ricordare Gobetti e Giovanni Amendola riporta troppo indietro nel tempo. Ma la ripresa post-berlingueriana della «questione morale», intesa come ossessiva e autocelebrativa riproposizione di una chiave manichea di lettura delle cose italiane, ha avuto proprio questo sfondo culturale in cui crescere. Incrociandosi con la «rivoluzione giudiziaria» che ha seppellito una buona parte della Prima Repubblica e segnatamente i partiti che storicamente sono stati antagonisti alla sinistra comunista, l’enfasi sulla «questione morale» è infatti diventata il codice di una sinistra che, pur nella sconfitta, ha continuato a viversi come la parte «migliore» della società italiana. «Migliore» in senso morale, e agitando la «questione morale» in modo improprio e anche strumentale. Ma allora, come giustificare, sulla base di una presunta diversità-superiorità morale e antropologica, la scoperta di casi di malaffare anche nella casa della sinistra, dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Lombardia, dalla Liguria alla Sicilia? Semplicemente non giustificandola, ovvero immergendola in una nebbia ideologica molto autoconsolatoria. E infatti si è voluto recintare quei fenomeni moralmente riprovevoli come casi isolati, pecore nere, episodi deplorevoli, ma non tali da inficiare la complessiva alterità della propria parte rispetto al sistema corrotto dell’Italia, anzi dell’«altra» Italia, «alle vongole», vorace e cleptomane. Il che non solo non soddisfa un criterio minimo di equanimità e di pari indignazione per fenomeni che purtroppo hanno coinvolto ambedue i lati della geografia politica italiana (assieme al Centro, ovviamente). Ma oscura e rende incomprensibili le ragioni, politiche, istituzionali ed economiche, di una rete di corruzione tanto diffusa.
A cominciare da una sempre negata, ma decisiva sul piano degli effetti corruttivi sulla gestione della cosa pubblica, dilatazione dell’ambito dell’intermediazione politica nella sfera degli affari e della vita economica dell’Italia, a livello centrale e soprattutto negli enti locali, dove il traffico degli appalti dominati dalla politica è tanto più intenso e pervasivo quanto più è largo il confine delle scelte economiche costrette a dipendere da scelte di natura esclusivamente politica. L’abuso della «questione morale» offusca il fatto che lo Stato occupa ancora, in tutte le sue articolazioni, uno spazio asfissiante nella vita sociale ed economica di tantissimi cittadini. Quando occorre rivolgersi alla «politica» per ottenere un appalto, ricevere un permesso, strappare un’autorizzazione, partecipare a una gara pubblica con una ragionevole possibilità di vincerla, incassare un finanziamento pubblico, conquistare un posto di lavoro, vuol dire che troppo spesso i cittadini si informano su chi vince le competizioni elettorali per capire da che parte andare e quale colore indossare. Si apre uno spazio di discrezionalità politica su ambiti della vita e del lavoro che altrove sono regolati da criteri di merito e di trasparenza e che nessuna bandiera sulla «questione morale» sarà capace di cancellare. Invece di chiedere la ritirata dello Stato da sfere che non gli sono proprie, si continua a pensare che la «buona politica» sia solo un problema di rettitudine personale che attiene alla moralità e non al funzionamento della cosa pubblica.
Mercato e regole
La cultura media italiana è ancora incline a bollare come biecamente e selvaggiamente «liberista» la proposta di ridurre il raggio d’azione della politica e di lasciare la società libera di svolgere le proprie attività senza dover fare anticamera con i politici di turno, assessori prepotenti, sindaci arroganti, consiglieri regionali disattenti ed esosi. C’è ancora l’idea, molto diffusa tra i più convinti vessilliferi della «questione morale», che il mercato sia il luogo dell’immoralità e dell’avidità e che dunque ogni proposta di restituire al mercato ciò che è stato usurpato dall’intermediazione politica non possa che aggravare i termini di un’urgente «questione morale». Mentre è il mercato regolato dalle leggi, ma non asfissiato da una politica avida e intrusiva, a diminuire l’occasione per i partiti di ottenere qualcosa in cambio di autorizzazioni e appalti che non dovrebbero essere concessioni magnanime di un potere pubblico, questo sì sregolato e invadente, ma diritti. Diritti dei singoli. Diritti dei cittadini. Diritti degli imprenditori che non devono essere costretti a chiedere favori. Questa è la vera «questione morale»: considerare del tutto ovvio che sia elargito come un favore ciò che un cittadino dovrebbe e potrebbe esercitare come un diritto. Machiavelli e il suo cinismo politico non c’entrano. C’entra la pretesa di una politica che pretende di dettare un’agenda morale, anziché riconoscere l’immoralità della propria illimitatezza e onnipotenza. Per diventare finalmente un Paese normale, come si aspetta, vanamente, da decenni.
Pierluigi Battista - La Lettura de Il Corriere della Sera
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