Sono nati tra il 1945 e il 1965. Spesso già in pensione. Ma in Germania li stanno richiamando al lavoro. E negli USA li schierano contro la crisi.
NEW YORK. Abbiamo costruito noi questa crisi, saremo noi a risolverla. La generazione del baby boom affronta la prova più importante: lasciare ai figli un’economia rinata, un bilancio pubblico sostenibile, le condizioni per una ripresa dell’occupazione. Dagli Stati Uniti alla Germania, c’è una musica nuova. Basta piagnistei sullo shock demografico, sul crac delle pensionie della sanità, sul terremoto sociale provocato dall’arrivo alle soglie dell’età pensionabile dei babyboomer (i più anziani dei quali stanno per raggiungere la fatidica soglia dei 65 anni, età legale della pensione in molti paesi occidentali). Stufi di essere colpevolizzati, i baby boomer vogliono essere la soluzione, non il problema. In America si rimboccano le maniche e decidono di lavorare fino e oltre i 70 anni, anche per supplire all’impoverimento collettivo della grande crisi.
La più prestigiosa università privata della California, Stanford, ha creato un istituto che si chiama Longevity. Questo centro non si o c c u p a m i n i m a mente di geriatria, bensì del “lato positivo” della longevità: come sfruttarne le potenzialità mettendo a frutto le riserve di energie, di intelligenze e di competenza della generazione più numerosa. Proprio Stanford, a Palo Alto nel cuore della Silicon Valley, è il centro di un’economia fondata sui “ragazzini” come Mark Zuckerberg di Facebook. Eppure è lì che il Longevity Institute equipara la generazione delle “pantere grigie” (o brizzolate) a una nuova risorsa strategica, su cui fare perno per un’altra ondata di innovazioni, alla pari con le energie rinnovabili e la biogenetica, i Big Data e le nanotecnologie. Solo negli Usa, i nati fra il 1945 e il 1965 sono 76 milioni, più di un quarto della popolazione. Ne fanno parte gli ultimi tre presidenti: Bill Clinton, George Bush e Barack Obama. In Inghilterra controllano l’80% della ricchezza nazionale. I demografi ci hanno descritti come “il maiale dentro il pitone”, per illustrare graficamente il rigonfiamento nella “pancia” della popolazione: prima di noi, i nostri genitori erano stati decimati dalla guerra e comunque non vivevano così a lungo; dopo di noi ci sono le generazioni sottili della denatalità. Questo “accidente” demografico, unico nella storia dell’umanità, è diventato l’occasione per un processo. A sentire i governanti che applicano l’austerity, i banchieri centrali, gli esperti di pensioni, saremmo noi il peso che affonda i bilanci pubblici in tutto l’Occidente. Siamo accusati – a turno – di stare incollati alle nostre poltrone escludendo i più giovani; o viceversa di oberare le future generazioni col costo delle nostre pensioni. Generazione-sandwich è un altro nomignolo: schiacciati come il prosciutto nel panino in mezzo a due pressioni, da una parte gli anziani a cui bisogna pagare le pensioni, dall’altra i figli che non trovano lavoro. Se andiamo in pensione troppo presto sfasciamo i conti pubblici, se non ci andiamo siamo il “tappo” che rallenta le assunzioni dei giovani?
A invocare la riscossa della generazione dei baby-boomer, è sceso in campo l’ultimo diretto(segue dalla copertina) re del New York Times e oggi autorevole opinionista dello stesso quotidiano, Bill Keller. Che ha scritto una sorta di Manifesto per tutti noi, le generazioni che includono i Clinton e gli Obama. “The Entitled Generation”, ci definisce Keller: che si può tradurre come “La generazione privilegiata”. Keller riprende tutti i capi d’imputazione che ci sono stati rivolti. Da destra, la generazione dei baby boomerè accusata di avere partorito il Sessantotto e il femminismo, le rivolte antiautoritarie e il boom della marijuana, tutto ciò che ha fatto a pezzi i valori tradizionali, il collante della società. “La Peggior Generazione”, la definì un consigliere di Bill Clinton, Paul Begala, che descrive i baby boomer come «i più egoisti, egocentrici, autoreferenziali, presuntuosi, indulgenti con se stessi». Keller contrattacca: «Tra noi ci furono quelli che andarono a combattere in Vietnam e quelli che protestarono contro la guerra. Dai nostri ranghi sono usciti i banchieri d’azzardo di Wall Street ma anche i geni imprenditoriali di Steve Jobs e Bill Gates». Il capo d’accusa più importante è in un rapporto-bomba della Third Way, un think tank vicino al partito democratico. È una radiografia della spesa pubblica negli ultimi 50 anni, reinterpreta la storia economica con un criterio nuovo. Divide il ruolo dello Stato in due missioni fondamentali. Da una parte gli investimenti: la modernizzazione delle infrastrutture, la scuola, l’università. Un’altra parte corposa della spesa pubblica sono gli “entitlement”, i diritti acquisiti: pensioni, assistenza sanitaria. Via via che la generazione dei baby boomerè passata dalla giovinezza all’età adulta, dagli studi alla professione, dalla contestazione al potere, la “linea blu” degli investimenti è scesa, mentre la “linea rossa” dei diritti acquisiti è schizzata verso il cielo.
Nel 1962, per ogni dollaro di spesa federale 32 centesimi venivano destinati agli investimenti, solo 14 centesimi andavano ai diritti acquisiti. Oggi gli investimenti sono crollati al 14% mentre i diritti acquisiti assorbono il 46%. «Nel 2030 – scrive Keller – cioè nell’anno in cui il più giovane di noi baby boomer andrà in pensione, i diritti acquisiti assorbiranno il 61%e per gli investimenti nel futuro non resterà quasi nulla». Keller mette i baby boomer di fronte alla sfida di oggi. «Non è colpa nostra se siamo tanti. È colpa nostra se facciamo resistenza contro il cambiamento. Forse non siamo la più nobile di tutte le generazioni, ma essendo la più larga, possiamo usare il nostro peso per spostare le politiche nella direzione giusta». L’editoriale di Keller ha scatenato un vespaio di reazioni. La maggior parte dei lettori del New York Times – ovviamente baby boomer – non accettano neppure la definizione di “entitlement”: quasi che pensioni e assistenza sanitaria fossero un privilegio calato dall’alto e non dei diritti guadagnati, finanziati con le tasse e i contributi sulla busta paga. Ma lo spirito che anima Keller è vivo e vegeto in un’altra reazione della società americana. Che studia come attrezzarsi per trasformare lo shock demografico in una rivoluzione positiva. Mettendo a frutto le straordinarie energie della generazione più popolosa, per farne un motore di rinascita. L’industria e il marketing hanno già lo sguardo verso l’orizzonte più lontano. Dopotutto un mito del made in Usa come la moto Harley Davidson è rinato da quando è diventato l’oggetto del desiderio per gli ex-hippy, ex contestatori, la tribù attempata di Woodstock e della Summer of Love.
In Germania sono le aziende a ripensare il pensionamento flessibile in modo rovesciato – non per pre-pensionare, ma al contrario per prolungare il contributo di consulenza e di formazione dei dipendenti più anziani. In America si ri-progettano ufficie luoghi di lavoro, per adattarli ai ritmi di vita e di concentrazione delle “pantere grigie”. Risultato: mai come oggi, così tanti americani over-65 e perfino over-75 sono stati al lavoro. Le statistiche attuali, che hanno iniziato ad essere raccolte dal 1981, mostrano che non vi sono precedenti per questo livello di occupazione tra gli anziani. O “pre-anziani”? Appartenenti alla “seconda età adulta”? Proliferano i neologismi per descrivere la nascita di una nuova generazione, che andrà distinta in qualche modo dai pensionati. Ecco i numeri. Tra i maschi fra i 65 e i 69 anni di età, negli Usa più di un terzo oggi continua a lavorare. Fra le donne della stessa fascia, più di un quarto sta lavorando. Una quota di questi anziani non si ritira dall’attività perché non può permetterselo. Il valore complessivo dei risparmi degli americani è più basso del 15% rispetto al 2007, è l’impoverimento provocato dalla caduta della Borsa durante la crisi. Dunque, molti continuano ad aggrapparsi al lavoro per non diminuire il proprio tenore di vita. Un’altra parte degli over-65 in America continua a lavorare per tutt’altre ragioni: trova nell’attività un ruolo, uno status sociale, una ragione di vivere, un anti-depressivo. In una parola sola: una missione. Secondo un’indagine demoscopica commissionata all’Associated Press dalla LifeGoesStrong, il 25% dei baby boomer «ha deciso che in pensione non vuole andarci mai».
Non si aggrappa al posto fisso, concetto inesistente negli Stati Uniti: molti di questi baby boomer hanno scelto la strada del lavoro freelance, della consulenza, della formazione dei giovani, anche il volontariato. Di questa crisi hanno capito che non sarà passeggera.E come in tutti i frangenti della storia che li hanno visti protagonisti, i baby boomer d’America hanno chiara una cosa: nel bene o nel male, come ne usciremo dipenderà da loro.
Federico Rampini per la Repubblica
Via gli esuberi, largo ai prepensionamenti, così taglieremo i costi e torneremo grandi. Déjà vu, musica già sentita, mantra che a volte sembra aver gettato investitorie manager europei e non solo in una dipendenza tossica. E invece no, non è vero. Non lo dicono associazioni dei pensionati, né organizzazioni benefiche. Lo pensa, e così agisce, le patronat allemand, insomma gli imprenditori dell’economia più grossa, globale e competitiva d’Europa, quella tedesca. No, signori, dietrofront: i dipendenti anziani servono troppo, sono indispensabili. Vanno tenuti in azienda, o riassunti se sono stati prepensionati. Perché la loro esperienza, la loro qualifica, il loro know-how nel produrre ma anche nel creare un buon clima sul lavoro e nell’indovinare i gusti del pubblico sono indispensabili. Vanno tenuti in azienda, o riassunti se sono stati prepensionati. Perché la loro esperienza, la loro qualifica, il loro know-how nel produrre ma anche nel creare un buon clima sul lavoro e nell’indovinare i gusti del pubblico sono indispensabili. E se lo dicono gli imprenditori tedeschi, che quanto a competitività stracciano americani e giapponesi in quasi ogni comparto, avranno le loro ragioni e la loro convenienza.
La storia non è inventata, è stata scoperta dagli investigative reporters della Bild, il quotidiano più letto d’Europa. Bosch e Volkswagen, Bmw e la parte tedesca di Airbus industrie, il gigante della distribuzione Otto, la blasonata Daimler cioè Mercedes, e ancora il colosso farmaceutico-chimico Bayer e la Abb di elettronica e multicomparto, o Fraport, la società che gestisce l’aeroporto di Francoforte realizzando grossi utili alla Borsa pochi chilometri dalle piste e dai terminal, hanno scelto questa via. «La grande, multiforme esperienza e preparazione dei nostri dipendenti più anziani è un atout che stimiamo moltissimo», dice Nicole Adami, del gruppo Otto. Il colosso delle vendite postali e online ha addirittura creato una società controllata per gestire il rientro delle “pantere grigie” pensionate o prepensionate negli anni scorsi. Servono, magari non a tempo pieno ma come consulenti con un ruolo centrale: le pantere grigie tedesche sono diventate un’arma segreta della più forte industria esportatrice al mondo dopo quella cinese. «Per noi è necessario anche fare i conti con le svolte demografiche», spiega ancora Frau Adami: una società con più anziani e meno figli in media per famiglie produce anche meno lavoratori qualificati, a ogni livello. Alcuni dei riassunti sono avanti negli anni, ma energici più che mai, pieni di voglia di fare qualcosa per gli altri.
Come Jochen Michalczyk, 69 anni, ripreso da Otto e usato come esperto per i problemi-chiave sul mercato. Alla Bosch, simbolo di eccellenza mondiale nell’elettronica per l’auto e non solo, si sono affrettati a spulciare negli archivi degli ex dipendenti. Risultato: una lista dei millecinquecento migliori ex, subito contattati e subito dichiaratisi pronti a lavorare. Il lavoro di seicento di loro per l’azienda, l’anno scorso, sommato, conta per 55mila giorni attivi. «Sono molto meglio di esperti esterni, capiscono velocissimi i problemi e trovano le soluzioni migliori», dice un portavoce aziendale. Uno di loro è Fritz Baumann, 66 anni. «Andai in pensione nel 2006, poco dopo fui richiamato come consigliere per un progetto-chiave in Russia», racconta. «Non conta la paga, ma la soddisfazione di comunicare la mia esperienza ai neoassunti, e in generale ai colleghi più giovani».
Stessa sinfonia alla Volkswagen, il colosso dell’auto maestro di cogestione, che già è in corsia di sorpasso per strappare a Gm e Toyota la medaglia d’oro di primo produttore mondiale d’auto. L’esperimento di 13 riassunzioni di pensionati a Hannover è andato a gonfie vele, «quei colleghi», affermano in azienda, «sono un tesoro di esperienza, e portano un clima di passione per il lavoro». O a Continental, il gruppo tedesco dei pneumatici di qualità, dove 64enni come Herbert Luehmann sono tornati a fare i capireparto part time, tre giorni alla settimana, nel settore ricerca. Non è filantropia, è che gli over sixty sono indispensabili per i global players del made in Germany, nello scontro della mondializzazione con i giganti di altri paesi. Le ricadute sociali della svolta non sono però meno grandi o meno positive, solo perché la svolta viene, spinta dalla caccia al profitto.
Andrea Tarquini per la Repubblica
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