Basta una passeggiata su un litorale per farsi un’idea dell’incredibile diffusione del fenomeno. Tatuaggi ovunque e di ogni forma. Non più, non solo adolescenti e giovani appartenenti a una controcultura: il tatuaggio è una moda contagiosa anche per i loro genitori. Musicisti, calciatori e attori hanno tracciato il sentiero: se un tempo il tatuaggio era un segno di primitività, oggi è al contrario un marchio di progresso. L’Occidente ha fame di tatuaggi e cerca altrove, in altre culture, simboli autentici e «tribali», come si usa dire.
«Se cerchi un tatuatore, vai da Willy». Così mi dissero, un paio di anni fa, alcuni amici di Futuna, un’isola della Polinesia occidentale. In tanti anni di ricerche antropologiche in Oceania non mi ero granché interessato al tatuaggio, benché lo stesso termine sia originario proprio della Polinesia.
Fu James Cook a raccogliere la parola tatau a Tahiti nel 1769, durante il suo primo viaggio di esplorazione del Pacifico e a divulgarlo in inglese (tattoo, tattooing) insieme a una descrizione densa della pratica.
Willy è un giovane sulla trentina, di mestiere fa il meccanico di automobili e, nei weekend, integra il salario con i tatuaggi. Willy però, a differenza di quanto ci piacerebbe immaginare, non è l’ultimo discendente di una lunga dinastia di artigiani-tatuatori: «La passione mi è venuta in Francia, quando facevo il militare — mi racconta —. Ho imparato a tatuare in Nuova Caledonia, in una bottega di indonesiani». Quando gli chiedo se nel suo repertorio ci siano segni locali, mi risponde che qui, sull’isola, «non vanno». La gente vuole i tatuaggi dei calciatori, oppure segni cristiani (la Croce, il Sacro Cuore). Alla fine mi inviterà a visionare il suo campionario su un pc, connettendosi a un sito californiano.
Strana, avvincente e pressoché sconosciuta storia quella dei tatuaggi. Molti occidentali sognano oggi esotici e autentici marchi polinesiani da esibire a fior di pelle, mentre i polinesiani si imprimono, oltre alle tradizionali figure geometriche, marchi occidentali. Il tatuaggio non era una pratica del tutto ignota all’Occidente, prima di Cook: greci, romani, celti e altre popolazioni europee praticavano forme di tatuaggio, seppure non esteticamente elaborate come quelle oceaniane o giapponesi. Già Ötzi, la mummia del Similaun, aveva parecchi segni impressi nella pelle, forse a scopo terapeutico. La scoperta dei tatuaggi polinesiani da parte di Cook ebbe tuttavia un ruolo dirompente nel trasformare una pratica marginale in un fenomeno ben più importante, tanto da meritare un nuovo nome: tattoo. Con Cook si apriva una nuova pagina, non solo perché i tatuaggi polinesiani venivano descritti e rappresentati con cura (si pensi ai visi maori raffigurati da Sydney Parkinson), ma perché molti marinai e ufficiali divennero così intimi con i nativi da farsi tatuare dagli stessi tahitiani, accettando di buon cuore questa forma di «violenza controllata» (N. Thomas, A. Cole e B. Douglas, Tattoo. Bodies, art and exchange in the Pacific and the West, Durham, Duke University Press, 2005). Ci troviamo sì davanti a curiosità per l’esotico e fascino à la Rousseau del primitivo «incontaminato», ma anche a un desiderio di incorporare l’altro, rendendolo parte indelebile del sé.
La storia dei tatuaggi è caratterizzata in Occidente da una persistente ambivalenza. Se, alla fine del Settecento, oltre agli umili marinai anche i nobili di corte ne furono così affascinati da volerli imprimere sui propri corpi, ben presto la pratica divenne il segno di un’umanità deviante, pericolosa o irrimediabilmente primitiva. A tatuarsi, nel corso dell’Ottocento, furono soprattutto galeotti, marinai, prostitute, figuranti da circo. Il tatuaggio, in questa prospettiva, veniva interpretato come il «marchio di Caino», quel segno che secondo la Genesi (4, 15) Dio impresse sul primo omicida, come segno di perdono, forse,ma anche come marchio di infamia. Molti missionari, vedendo in queste pratiche un’indebita interferenza nell’opera di costruzione divina, proibirono i tatuaggi che, in varie parti dell’Oceania, scomparvero del tutto. Ancora alla fine dell’Ottocento, Cesare Lombroso considerava il tatuaggio un segno evidente e indelebile dell’uomo delinquente e del primitivo: brandelli di pelle di internati, tagliati ed essiccati dallo scienziato torinese, erano visibili fino a una decina di anni fa nel suo museo.
Accanto a questa visione negativa, esemplificata anche dall’uso del punitive tattooing in contesti coloniali (per marchiare presunti criminali e dissidenti) e nei campi di sterminio nazisti, conviveva tuttavia un’attrazione e un fascino che avrebbe determinato, due secoli dopo Cook, il «rinascimento» del tatuaggio.
Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, i giovani americani aderenti al movimento dei Modern Primitives, cominciarono a tatuarsi e a rivendicare le qualità estetiche e morali dell’antica pratica. In un Occidente che iniziava a riflettere in modo più critico su di sé e sulla propria storia coloniale, gli «altri», i «primitivi», le loro pratiche e saperi, tornavano a essere pensati come possibilità alternative, vie di uscita dal conformismo e dal consumismo dilagante. Il rifiuto della cultura dell’Occidente e la rivendicazione di un’autopoiesi del corpo rilanciarono la moda del tatuaggio che sarebbe poi esplosa nel corso degli anni Ottanta.
Fu in questi stessi anni e nel contesto di una rivalorizzazione delle tradizioni locali che anche i polinesiani riabilitarono l’antica pratica, a partire da Tahiti, dalle Hawaii, da Samoa e via via dal resto del mondo insulare. Come ha raccontato Matteo Aria (Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata in Polinesia francese, Pisa, Pacini, 2007), la tecnica e i segni del tatuaggio polinesiano furono ri-creati da intellettuali e attivisti locali a partire da una ricerca in quelle isole in cui i tatuaggi non erano del tutto scomparsi. A Samoa, per esempio, lontano da sguardi indiscreti, i nativi avevano continuato a praticare il pe’a e il malu (tatuaggio maschile e femminile) sui loro corpi, anche perché nella cultura samoana il tatuaggio rappresentava (e rappresenta tuttora) una modalità irrinunciabile per «costruire umanità», per accompagnare i giovani nel loro ingresso all’età adulta.
La rinascita del tatuaggio in Polinesia fu resa egualmente possibile da uno studio delle fonti occidentali: quegli stessi occidentali responsabili del venir meno della pratica contribuirono a salvare qualcosa di essa riproducendo quei segni — come fece per esempio l’artista russo Tilesius Von Tilenau alle Marchesi — su supporti di memoria come libri, dipinti, incisioni, più duraturi del corpo umano. Viaggiando in America e in Europa per partecipare alle numerose Convention del tatuaggio (Roma e Milano le principali mete italiane), tahitiani, samoani, hawaiani tornano oggi a tatuare le pelli dei bianchi, come fecero i loro progenitori.
Willy e gli altri tatuatori polinesiani non sono più i custodi di una originaria e incontaminata arte del corpo e tuttavia l’interesse principale del tatuaggio sta, forse, proprio in questo suo carattere meticcio. Tutte le culture che lo hanno praticato hanno attribuito un significato particolare ai segni riprodotti (simboli di fecondità, potere, bellezza, erotismo…): tuttavia il tatuaggio sembra avere anche un significato trans-culturale, proprio perché si presta a divenire una pratica condivisa.
Imprimere in modo indelebile su ciò che si ha di più intimo, il proprio corpo, i segni di «altre» culture, è a mio avviso una delle testimonianze più forti di quanto sia profondo nell’uomo il desiderio e il bisogno della diversità culturale. L’ambivalenza del tatuaggio è espressione, in fondo, della doppia faccia della diversità: paurosa e attraente, rischiosa e inevitabile al tempo stesso.
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