Se volete dar retta al professor Sennett, potete guardare alla crisi economica che sta colpendo l'Occidente, quella attuale ma anche quella precedente del 2008, anche con un occhio diverso rispetto ai mutui subprime americani o alla crisi di fiducia degli investitori. Per esempio, potreste provare a considerare la crisi dal punto di vista della riduzione della capacità di cooperare tra le persone, e soprattutto tra i lavoratori dei settori economici più avanzati, della finanza e delle nuove tecnologie. È da lì allora che sono nate le difficoltà del sistema economico? «No, no», si affretta a precisare il professore, «la crisi è una crisi economico-finanziaria». L'incapacità sempre più accentuata di mettersi insieme per ottenere risultati è stata solo una conseguenza. Ma poi, a sua volta, ha complicato le cose. Ed è solo lì, nella capacità di fare qualcosa con gli altri, con quelli che non conosciamo, ai quali non vogliamo bene e che anzi a volte possiamo anche ritenere antipatici, che può esserci una strada per il nostro futuro.
Richard Sennett è un sociologo americano che insegna alla London School of Economics e alla New York University. Nato a Chicago da una famiglia operaia, praticamente fin dall'inizio della sua lunga carriera di ricercatore, di docente e di autore di saggi si è occupato delle condizioni di vita nell'ambiente urbano e sul lavoro, con una attenzione particolare alle classi lavoratrici. I suoi libri più famosi, però, sono sicuramente gli ultimi, che già dal titolo rimandano alla sua visione delle dinamiche del nostro mondo e delle sue crisi più attuali: "L'uomo flessibile", del 1999, "Rispetto. La dignità umana in un mondo di disuguali", "La cultura del nuovo capitalismo" (2006). Si definisce senza timori un uomo di sinistra, ma ha molto da dire sul modo in cui la sinistra politica è stata incapace di capire quello che succedeva e in definitiva «ha fallito e disgustato i giovani» (anche se precisa di non conoscere la situazione italiana). A Milano abbiamo potuto incontrarlo grazie alla Fondazione Cariplo che, insieme alla casa editrice Feltrinelli, lo ha invitato a presentare il suo ultimo libro dedicato, appunto, alla capacità degli uomini di collaborare e intitolato "Insieme". In copertina, l'esempio che a Sennett più piace: un gruppo di vogatori impegnati in una gara. «È un'immagine che spiega bene come la collaborazione non sia l'opposto dell'altra grande forza, la competizione: quei rematori collaborano per competere. E in definitiva sono entrambi processi dinamici». Nel suo libro mette sotto esame tutti gli aspetti del modo in cui le persone arrivano a fare le cose insieme. Sennett è convinto che la collaborazione sia innata nell'uomo, sia un tratto genetico della nostra specie, ma pensa anche che a collaborare si possa e si debba imparare, esercitando vere e proprie tecniche.
Questa capacità di agire insieme per uno scopo nel nostro sistema economico si è andata indebolendo, benché sia «un aspetto molto importante per il capitalismo moderno e fondamentale per poter superare la sua crisi». Dietro quello che è successo c'è sicuramente la riduzione delle risorse a disposizione, l'aumento delle disuguaglianze, che riducono gli spazi di collaborazione e l'attenzione agli altri, facendo crescere l'egoismo, ma tutto questo non basta. Quello che Sennett ha scoperto, per esempio andando a intervistare con i suoi studenti i lavoratori di Wall Street finiti disoccupati, è che nelle loro società avevano completamente perso la capacità di lavorare insieme. E ci sono almeno due fattori che hanno portato a questa situazione. C'è l'orizzonte sempre più breve rispetto al quale si muovo le aziende: i risultati vanno raggiunti in meno di un anno, i capi sono sempre in cerca di un successo veloce e magari cambiano. E c'è quella che lo studioso definisce la "burocratizzazione" della collaborazione: «Nella nuova economia tutto diventa più formale e regolato, anche la cooperazione. E più si chiede alle persone di cooperare, meno succede. le vecchie teorie suggerivano che più le persone imparavano a collaborare fuori dall'ambiente di lavoro, più lo avrebbero fatto anche all'interno dell'azienda. Nel sistema moderno c'è una istituzionalizzazione della collaborazione che non porta a niente». Alla fine, i lavoratori di Wall Street non potevano fidarsi gli uni degli altri e nemmeno del giudizio dei capi. Persi, isolati, costretti a puntare continuamente a nuovi obiettivi per andare avanti, avevano smarrito completamente il senso del proprio lavoro . E, soprattutto, non riuscivano a collaborare perché dovevano continuamente guardarsi le spalle dai propri colleghi. Quello che ha visto succedere nel mondo della finanza, a quanto pare, rappresenta un po' il paradigma del lavoro contemporaneo, nella visione del sociologo americano.
C'è ancora modo, però, di rimediare alla situazione. Perché la capacità di cooperare è genetica, ma si impara anche, anzi per Sennett è proprio una abilità dell'uomo, alla quale ci si può applicare, come la capacità del buon artigiano di uno dei sui libri più famosi ("L'uomo artigiano", del 2008). E il professore indica tra strade da seguire, da usare proprio come in un manuale pratico a partire dalle relazioni in cui siamo coinvolti ogni giorno: riscoprire la capacità dialogica, di guardare oltre il significato delle parole e cogliere l'intenzione di quello che ci viene detto; imparare a usare il condizionale, essere meno assertivi e sicuri nel dire le cose, lasciando spazio al dialogo, perché «la chiarezza è nemica della collaborazione»; guardare agli altro con empatia anziché con simpatia, chiedendoci cosa ci sia che non va in chi sta male anziché limitarci a compatirlo. «Queste tre capacità sono state dimenticate e messe da parte dalle aziende e nell'economia moderna». Ma questo, ovviamente, non significa che la collaborazione sia morta: Occupy Wall Street, gli Indignados e gli altri movimenti «di cui abbiamo un gran bisogno», sono esempi di collaborazione, in cui persone diverse si uniscono per fare davvero qualcosa insieme. «È un modo differente di affrontare la crisi del capitalismo moderno». Per capire se le cose avranno funzionato, forse non si dovrà guardare solo al fatturato di fine anno o al Pil dei Paesi. «La tendenza è sempre quella di riportare le cose a come erano prima, tutto quello che è stato fatto per affrontare questa crisi cerca di riparare ciò che si è rotto, per tornare al boom economico. Io non credo che le aziende debbano tornare ad essere quelle di un tempo. Credo che il sistema vada davvero riconfigurato. Cresceranno i profitti? Forse. Però di sicuro crescerà la soddisfazione per le persone».
Paolo Magliocco - il Sole 24 Ore
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