Nei giorni scorsi d’intense nevicate mi è venuto in mente un detto che mi ripeteva sempre mia madre in queste situazioni “sotto la neve pane”. Come nel passato, anche ora le nevicate fanno bene alla terra dove sono seminati grano e cereali. Sono un’ottima premessa a buoni raccolti.
Il pane: farina, acqua, sale e lievito. Un alimento così semplice eppure il mangiare del pane è uno dei gesti che da più tempo lega l’uomo alla terra. Fin dall’inizio della nostra storia il pane ha avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, per il riconoscimento sociale, per la liturgia religiosa. Il pane è un nostro alimento almeno dal II secolo a.C., fu Roma a introdurre la panificazione nel nostro Paese probabilmente a seguito del trasferimento nella capitale di prigionieri macedoni. La mancanza del pane ha provocato rivolte violente, il colore ha determinato per lungo tempo il prestigio o meno, oggi completamente capovolto poiché il pane bianco è meno gradito rispetto a quello delle farine meticce, è un simbolo fondamentale per testimoniare la presenza del Signore tutti i giorni. Possiamo dire che quest’alimento è il simbolo stesso, per eccellenza, della vita.
Il nostro Paese può vantare, a giusta causa, un ruolo importante sul pane. I pani d’Italia sono più di 400 tipi diversi, tra cui molti già certificati Igp e Dop. Nonostante i consumi si siano abbassati negli ultimi anni, complici le nuove tendenze alimentari per un fisico che si vorrebbe sempre perfetto, il pane rimane un alimento base per gli italiani. Oltre il 55 per cento della popolazione compra pane fresco tutte le mattine dai 23 mila fornai sparsi sulla penisola. Il consumo medio giornaliero varia tra gli 85 e 100 grammi a persona. Per dare un riferimento, negli anni Settanta era di 3 etti e mezzo. Comunque spendiamo ogni anno circa 312 euro a testa per l’acquisto del pane generando un fatturato di 18 miliardi di euro.
In realtà oggi il pane vive una nuova giovinezza. In virtù della continua ricerca di panificazioni in qualità fatta di farine integrali, forme e contenuti differenti, è sempre più apprezzato e ricercato. Tutti noi dovremmo essere esigenti e pretendere qualità per quest’alimento. A volte mi stupisco come in alcuni locali ci siano ancora ristoratori che scivolano su quest’alimento importante proponendo pane scadente, a volte non fresco o, peggio prodotti confezionati.
Pensiamo all’esperienza dei sensi che compiamo quando ci troviamo in mano un bel pane un po’ rustico al tatto e ancora leggermente infarinato, l’odore che emana, il sapore che proviamo nella consistenza della soffice mollica in contrasto con il croccante suono che fa la crosta quando la spezziamo. Il pane ha “quel qualcosa” di rassicurante e familiare. E’ la nostra storia. E’ la tradizione che si perpetua nel tempo.
L’aspetto più preoccupante che noto è che, a causa dell’industrializzazione, anche nella panificazione si sta perdendo memoria sia delle tipologie regionali dei pani, sia della capacità di comprendere la differenza tra un pane di qualità e uno qualunque. Una volta girare per i forni era un’esperienza incredibile: avvertivi la differenza, non solo nelle forme, tra una coppia ferrarese, famoso il pane di Ferrara grazie alla sua acqua, una michetta milanese, una focaccia genovese e un pane toscano “sciapo”. Purtroppo molte volte nei forni si trovano strane tipologie di pane con impasti senza personalità, omologati nel sapore e nella consistenza. Tralasciando l’aspetto della tenuta della fragranza nella stessa giornata. Quando si acquista poi già affettato e imbustato, perde la sua centralità, e stravolgiamo la nostra e la sua storia.
Pierangelo Raffini - pubblicato su leggilanotizia.it
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