Siamo parte di una generazione che vuole stare vicino a mamma e papà. E non si sfugge. Se sei un under 40 sei uno «sfigato» per essere rimasto parcheggiato troppo a lungo all'università. Se sei un under 30, peggio, sei un bamboccione, ancora appeso alla paghetta. Vogliamo tutti il posto fisso. La difesa dell'articolo 18. E li vogliamo anche sotto casa. Università e ufficio dietro l'angolo, con cordone ombelicale incluso. Riconosciamolo: l'immagine che ci descrive come un esercito di Tanguy, figli di genitori del boom economico - con il rischio concreto di diventare ora la generazione dello sboom - è umiliante.
Siamo gli sconfitti, schiaffeggiati pubblicamente dalla nostra classe politica. Ma qualcuno è andato a vedere se c'è una ragione sociologica, fors'anche economica? Il convitato di pietra di tutte le discussioni sull'articolo 18 c'è ed è la mobilità sociale. Quella che non c'è. Il lavoro in Italia è un «affare di famiglia». E quasi mai è un buon affare visto che la società è piramidale. Chi sta sopra tende a rimanere sopra, chi sta sotto ha un solo vantaggio, per dire così: che più in basso non si può andare. Il 44,8% dei figli di operai «ristagna». Il 22,5 dei figli di piccoli borghesi «scivola». Il 22,7% dell'alta borghesia lo ha ereditato dalla famiglia, come fossimo ancora nel Medio Evo.
Altro che Steve Jobs o Mark Zuckerberg, nuovi eroi del sogno americano dove tutti ce la possono fare a scalare la società anche partendo da un garage o dal dormitorio di Harvard. Qui bisogna più che altro difendersi. I dati sull'ascensore tra una classe e un'altra, supposto che ancora si possa fare questa distinzione, non sono molti. La scalabilità sociale è complessa da analizzare.
Tutti abbiamo l'idea di un passaggio difficile basato sulle nostre esperienze e le storie di parenti e amici che, inevitabilmente, tendono a provenire dalla stessa stratificazione. E poi c'è l'evidenza mediatica. Imprenditori che hanno il cognome di imprenditori. Politici che hanno il cognome dei politici. Giornalisti che hanno il cognome dei giornalisti. E, ça va sans dire, professori che hanno il cognome di professori. E se fosse tutto frutto di una percezione sbagliata?
Purtroppo no.
Il Censis nel 2006, ha fotografato il fenomeno partendo dai dati Istat «Uso del tempo, 2002-2003», sull'istruzione e la professione dei padri e dei figli. La sociologa Ketty Vaccaro, responsabile del settore welfare del Censis, ne va fiera, anche perché è stato un lavoraccio. «Rispetto alla generazione del boom economico oggi c'è un blocco nel passaggio da un livello all'altro. Un po' perché il titolo di studio è diventato una commodity laddove per i nostri genitori è stata condizione necessaria, ma spesso anche solo sufficiente, per il salto. Un po' anche perché siamo diventati tutti ceto medio con una borghesia a due velocità.
L'ascesa, là dove c'è, riguarda soprattutto i liberi professionisti con il passaggio dello studio dei genitori e l'imprenditoria per la trasmissione tra padre e figli anche di un patrimonio familiare, come appunto l'azienda, i macchinari». In altri termini, il 44% degli architetti ha un figlio architetto, come ricorda, citando un'indagine Alma Laurea del 2008, Maria De Paola su lavoce.info. E continuando: il 42% dei padri laureati in giurisprudenza ha un figlio con medesima laurea. I farmacisti? 41%. Gli ingegneri e i medici? 39%. I figli sono avatar professionali dei genitori.
L'Ocse analizza la mobilità sociale partendo da un altro parametro: il livello di stipendio dei figli in relazione a quello dei padri. Ma anche così il risultato non cambia. Nell'ultimo studio pubblicato nel 2010 «A family affair: Intergenerational social mobility across Oecd countries» risultiamo tra i peggiori in Europa. Sotto c'è solo la Gran Bretagna dove in effetti torna quella spiacevole percezione di non potercela fare se si nasce in un ceto senza l'accento giusto.
Siamo ancora una società di relazione. «Sfatiamo un mito: non siamo l'unico Paese in cui si utilizza un network protettivo per i figli. I club delle persone che contano ci sono in tutte le economie occidentali» ragiona Vaccaro. «Il punto è che qui la rete familiare e professionale è uno degli strumenti principali di inclusione». Si procede per cooptazione, telefonate, amicizie. La famiglia è ancora il miglior ufficio di collocamento. I curricula sono carta straccia (chi li guarda? Altro che LinkedIn...). «Anche il concorso in Italia non dico che sia pilotato, ma guidato sì» conclude impietosamente Vaccari.
Resta solo una speranza: che dai quei dati, negli ultimi dieci anni possa essere cambiato qualcosa.
E qualcosa è cambiato, ma in negativo. Il consensus è per il segno meno. «Non ci sono dati ma la mia presunzione è che sia ancora più grave oggi che in passato» sintetizza Andrea Ichinodell'Università di Bologna che con Daniele Checchi ha pubblicato nel '99 uno studio sulla mobilità sociale in Italia e negli Usa. «Però dobbiamo guardare a questi problemi nel loro insieme.
Bisognerebbe iniziare a togliere a me, professore universitario, la sicurezza del mio posto che è difeso anche se non pubblico o non faccio nulla. Tra articolo 18 e immobilità sociale c'è un trade-off. Dobbiamo iniziare a ragionare sul fatto che meno garanzie potrebbero coincidere con più mobilità. Altrimenti i figli rimangono vicini alla famiglia perché la famiglia è il canale per trovare lavoro» spiega Ichino. Insomma, discutere della sospensione delle garanzie solo per i nuovi contratti sarebbe un boomerang che leva il cibo agli affamati e lo lascia a chi ha la pancia piena o mezza piena. Il lavoro cambierà pure. Ma la possibilità di farcela, eccezioni a parte, non fa parte della nostra genetica collettiva.
Dov'è lo svincolo per la meritocrazia?
Massimo Sideri - Pubblicato il 9 febbraio 2012 su il Corriere della Sera - Dossier sulla Mobilità sociale
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