Un educatore appassionato, uno scrittore limpido, un divulgatore di classe, un bibliofilo competente, un agricoltore innovativo, un liberale autentico, un patriota convinto, un Governatore miracoloso, un Presidente esemplare: potrebbero essere tanti i percorsi da imboccare per ricordare degnamente Luigi Einaudi, scomparso a Roma cinquant'anni fa.
Ma nessuno, preso da solo, renderebbe giustizia a una figura di cui oggi possiamo riconoscere e ammirare, soprattutto, la sorprendente attualità. Tanto per cominciare, peccherebbe di ipocrisia il giornalista che, celebrando Einaudi, ne trascurasse la tenace e sfortunata battaglia contro l'Ordine dei Giornalisti: «Non esiste un albo di poeti e non può esistere un albo dei giornalisti… L'albo dei giornalisti (se non è volontario, ndr) è, tecnicamente, un istituto assurdo e ridicolo, moralmente uno strumento di schiavitù, un indice infallibile di tirannia».
Certamente, perciò, Einaudi non solo non apprezzerebbe che l'Ordine da lui criticato sopravviva, ma sarebbe sconcertato nel rilevare come, accanto a esso, sia cresciuta una giungla di corporazioni, nelle cui spire si sfianca ogni tentativo di promuovere una società più aperta, meno baronale, meno familistica, capace di premiare il merito e di promuovere l'autentica mobilità sociale. Einaudi vedeva giusto nel 1947, quando scriveva che «le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assoluto parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano all'orizzonte».
Proprio la mobilità sociale era un punto che a Einaudi stava molto a cuore, smentendo - se qualcuno ci crede ancora - il presunto profilo conservatore del suo liberalismo: lo conferma l'insistenza sul principio dell'«uguaglianza nei punti di partenza» che, ancorché depurato dall'«esagerazione retorica», esprime una «esigenza morale» e contiene una «grande virtù». E che può essere consolidato attraverso un sistema di tassazione ereditaria congegnato in modo da premiare «quelle sole famiglie che serbassero virtù di lavoro e di ricostruzione, non di mera conservazione» del patrimonio trasmesso. Qui emergono i tratti del welfare liberale, compassionevole e generalista, ma attento a non mortificare le potenzialità di autorealizzazione che rendono ciascuno imprenditore di se stesso, e a non consolidare rendite di posizione.
Perciò Einaudi non perdonava chi crede «che sia dannoso mettere tanta gente allo studio»; ma aggiungeva che per risultare strumento efficace di mobilità sociale la scuola non può essere mediocre. E qui viene la battaglia contro il valore legale del titolo di studio, nel quale Einaudi vedeva solo una fonte di inganno: «Quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti», per l'illusione creata che «il pezzo di carta dia diritto a qualcosa». Mentre è la qualità effettiva dell'istruzione, facilmente riconosciuta dal mercato, ad aprire le strade del progresso individuale. C'era naturalmente in questa posizione la diffidenza radicata verso ogni forma di monopolio, pur ammantata dalle migliori intenzioni, quale quella che giustificherebbe il modello statalista e centralista di origine «napoleonica» che, argomenta Einaudi, «non garantisce affatto la libertà della scuola». Einaudi non era contro la scuola pubblica, ma contro il monopolio pubblico dell'istruzione: «Importa - spiegava - esistano (nella scuola, ndr.) rivalità, emulazione, concorrenza perché perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene». È un peccato che Einaudi non abbia fatto in tempo a commentare la proposta del buono-scuola.
Monopoli pubblici e privati furono un'altra delle bestie nere di Einaudi, che vi vedeva, assieme a ogni tentativo di ingabbiare il mercato (che per lui era tutt'altro che privo di regole), uno strumento di efficacia pari al collettivismo nel distruggere la libertà. Perciò alla Costituente propose, senza fortuna, un articolo che esplicitasse nella Carta come «La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta»: nelle prime parole dell'articolo, troviamo addirittura un'anticipazione delle future elaborazioni di Bruno Leoni e della scuola di Public Choice (diversi esponenti della quale sono stati insigniti dal premio Nobel per l'economia) per i quali le scelte parlamentari, e quindi la politica, più che curarsi del bene comune tutelano specifici e robusti gruppi di interesse economico. Per arginare i quali, assieme ai conseguenti assalti alla finanza pubblica che l'hanno devastata nel giro di quarant'anni, sarebbe stata utile la diligente applicazione di quell'art. 81 della Costituzione di cui fu coautore lo stesso Einaudi.
Almeno su altre due questioni di bruciante attualità Einaudi avrebbe molto da dire. Innanzi tutto, sul sistema elettorale, a proposito del quale egli non aveva mai nascosto la netta contrarietà alla soluzione proporzionale, che irrigidirebbe «i partiti, i gruppi, le classi, i ceti sociali, le tendenze, le idee, dandone la rappresentanza esclusiva a talune persone elette perché mandatarie di quei gruppi o di quelle idee»: parole del 1944, non della settimana scorsa.
L'altro tema è l'Europa: dal Quirinale, il Presidente vigilò sui primi passi dell'integrazione comunitaria e prese partito sullo sfortunato tentativo di creare una comunità di difesa, il cui fallimento sembrò a un certo punto mettere a repentaglio tutto il percorso dell'Europa unita. Da federalista convinto, Einaudi oggi metterebbe in guardia contro i rischi di fare le cose a metà: per esempio, con un'unione monetaria che non risponda a un'autorità sovranazionale in grado di coordinare le politiche economiche. Di nuovo, sembra di sentirlo parlare di cose di oggi (ma siamo nel 1952), quando Einaudi ammonisce che una politica monetaria comune deve essere gestita da «un ente politico sovrano federale» a costo, altrimenti, di «fare un bel fiasco». O di alimentare sorrisetti e dispettucci.
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