Quando l’educazione vien mangiando. In tempi di fast food, di cibi che si assaporano con le mani, come la pizza e l’hamburger, di pasti consumati velocemente anche davanti al televisore o al computer, di cellulari sempre accesi, le etichette cambiano. Però resistono. «Sfamarsi è un bisogno fisico, ma il pasto resta sempre un rito sociale a cui non si può rinunciare», scrive il Guardian, nostalgico delle vecchie abitudini e soprattutto «del sacro momento del tè servito in tazze di porcellana, ora sostituito dal veloce cappuccino caramellato di Starbucks». Bisogna rimediare «insegnando ai bambini come ci si comporta», suggerisce il giornale inglese, proprio come mostra il quadro «La preghiera prima del pasto» di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, in cui piccoli commensali pranzano con compostezza e in religioso silenzio.
Allora ci si chiede, le buone maniere a tavola interessano ancora?
«Più di prima. Le abbiamo dimenticate — risponde Giuseppe Scaraffia, storico e scrittore —. È da tempo immemorabile che si viene giudicati per come si mangia. Marcel Proust era criticato perché durante le cene si spostava con il piatto a ogni portata tra un invitato e l’altro, Charles-Maurice de Talleyrand si soffiava il naso senza fazzoletto, con le dita, in presenza dei commensali e Napoleone Bonaparte nella fretta si puliva le mani sui pantaloni di cashmere bianchi».
Anche oggi, «in molti film si scherza sullo smarrimento del novellino davanti alla molteplicità delle posate — continua —. Chi augura “buon appetito” fa la figura del provinciale. Chi non versa l’acqua alle signore è un cafone. E certo, bisognerebbe conversare equamente con il vicino di destra e con quello di sinistra, ma non è facile perché anche lui è impegnato nella stessa cosa con chi gli sta accanto».
Negli anni Cinquanta ci pensava Donna Letizia, Colette Cacciapuoti Rosselli, a invocare il buon gusto e a risolvere i piccoli dilemmi nella popolare rubrica «Il saper vivere»: «Quando si mangia i gomiti sono accostati al corpo e le mani non vanno mai abbandonate in grembo», consigliava. Oppure, «la minestra va gustata senza risucchi, appoggiando lateralmente il cucchiaio alle labbra». E ancora, «il tovagliolo non deve essere mai introdotto nel gilet o legato al collo, lo si spiega parzialmente distendendolo sulle ginocchia».
La signora del bon ton aborriva lo stuzzicadenti («proibito alle signore e sconsigliabile agli uomini») e insegnava l’arte della conversazione («non si parla a voce alta e con chi è seduto lontano»). «Una saggezza ancora attuale, il ton a cui deve aspirare la società», conclude Scaraffia.
Ma la maleducazione a tavola può anche essere la conseguenza di un’infanzia viziata e capricciosa: «È bene insegnare da subito ai più piccoli come ci si comporta — afferma Anna Oliviero Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza —. L’imitazione è il loro grande strumento. Se l’adulto ha un atteggiamento corretto il bimbo lo farà suo. Bisogna dargli il tempo di imparare e non desistere dal ripetere e dall’agire. Senza creare piccoli drammi, con tranquillità si assimila meglio. È importante la sequenza con cui si fanno le cose. Il pasto è un rito ma anche un ritmo, se viene interrotto e frammentato si perde il valore pedagogico».
Cenare con i quattro figli e il marito, per Maria Teresa Orlando, 42 anni, magistrato di Napoli, è uno dei momenti più belli della giornata ma è ancheil tempo dei capricci e delle lotte. «Il padre è più severo, ci tiene che restino in modo corretto a tavola. Con me, invece, scherzano un po’ di più. Ho insegnato loro che sul tavolo si appoggiano sempre i polsi, qualche volta gli avambracci e mai gomiti, però l’hanno trasformata in una filastrocca da fare al contrario». Ma arrivano anche le soddisfazioni: «Il più piccolo mangia meglio degli altri tre e ha imparato a farlo da solo a un anno e tre mesi. Poi, scherziamo, ci raccontiamo la giornata e cerchiamo di restare tutti seduti fino alla fine».
Si dispera, invece, Marina Struzzo, 38 anni architetto di Venezia: «Nicola ha 7 anni, parla con la bocca piena, beve rumorosamente e agita per aria le posate. Insomma, è un piccolo selvaggio», sorride.
Urge l’aiuto di un’esperta: «L’esempio dei genitori è fondamentale — spiega Lucia Rizzi, specialista di terapie comportamentali e in televisione con «S.O.S. Tata» su Sky e La7 (è in uscita il suo libro «Fate famiglia», edito da Rizzoli) .
Stare a tavola in modo corretto significa dare al cibo l’esatta importanza. «Bastano poche regole: non rispondere al cellulare, non accendere il televisore. La tavola va apparecchiata e sono banditi i vassoi da portare in giro per casa. Il bambino molto piccolo vuole stare a tavola con i grandi, magari nei primi anni gli si può concedere di prendere qualcosa con le mani, poi sarà lui che vorrà crescere e avrà gli strumenti giusti per farlo. Non sottovalutare la formalità del “per piacere” e del “grazie” e creare un’atmosfera positiva, tirando fuori degli argomenti sereni».
«diventa, così, una forma di rispetto per noi e per gli altri con cui condividiamo un momento importante — spiega lo chef stellato Alfonso Iaccarino, titolare del Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui Due Golfi —. Con la fretta, la distrazione, consumando il pasto in piedi si compromette anche la nutrizione».
Le (buone) maniere cambiano «ma non resistono soltanto al ristorante — aggiunge —. Capisco e noto una trasformazione sociale più alla portata di tutti, però una certa americanizzazione del mangiare proprio non mi piace». Cioè? «Aprire il frigo e ingerire quello che capita. In Italia, invece, la cultura della tavola regge, soprattutto la sera. Adoro vedere una famiglia (nonni compresi) pranzare e cenare insieme con i più piccoli e regalarsi grandi sorrisi».
di Rossella Burattino - La 27esima ora - Corriere della Sera
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