«Se noi daremo la sensazione netta precisa si- cura al contribuente che il letto di Procuste in cui egli ora è costretto dal grottesco cumulo di imposte vigenti sarà allungato ed appianato; che ad ogni anno non si rinnoverà il tormento del taglio minacciato di qualche membro del suo corpo vivo; se gli si assicurerà che, saltato il fosso, egli si ritroverà sul terreno solo e respirerà di nuovo liberamente, anche il contribuente italiano salterà il fosso; ossia pagherà la im- posta straordinaria patri- moniale».
E’ l’Italia postbellica quella a cui fa appello Luigi Einaudi nel suo volumetto del 1946 "L’imposta patrimoniale". Ma le aspettative - regolarmente deluse - sul fisco, il senso di emergenza di fronte a conti pubblici fuori controllo, il dibattito su quale sia la «giustizia in materia d’imposta», potrebbero riguardare con minimi aggiornamenti anche l’Italia di oggi che ri- schia di scivolare ai margini dell’Europa. A riportare una voce ve- ra del liberalismo - lontana anni luce dalle versioni talvolta caricaturali della dottrina cui siamo abituati - nel dibattito attualissimo sul ruolo della politica fiscale in situazioni d’emergenza è Chiarelettere editore nella sua collana di «Instant Book». Testi che per l’appunto arrivano il libreria sull’onda dell’attualità. E forse proprio la formula edi- toriale veloce spiega qualche refuso che nelle 62 pagi- ne dello snello libriccino, corredate dalla prefazione di Francesco Giavazzi, si sarebbe potuto evitare. All’imposta patrimoniale straordinaria che secondo le sinistre dovrebbe contribuire ad aggredire i profitti illeciti ottenuti durante la guerra, Einaudi - all’epoca Governatore della Banca d’Italia ma anche deputato della Costituente - dedica la sua prosa minuziosa e chiarissima. Spiegando subito che la patrimoniale come strumento di giustizia sociale, preferibile ad esempio a un’imposta straordinaria sui redditi, va smitizzata. «Giustizia in materia di imposta vuol dire uguaglianza di trattamento per le persone le quali si trovino in condizioni uguali. Ma giustizia non si fa ricorrendo soltanto all’imposta patrimoniale ovvero a quella sul reddito; ma si fa, in ambo le ipotesi guardando all’insieme delle situazioni complessive dei contribuenti». Dunque «la imposta patrimoniale per se stessa non è atta a far giustizia; ossia non è per se stessa "democratica"».
L’economista e il divulgatore che convivono in Einaudi spiegano chiaramente come di fronte a una patrimoniale di grande durezza («L’imposta patrimoniale straordinaria non avrebbe ra- gion d’essere se non fosse rilevante»), l’effetto perverso sarebbe quello di costringere i contribuenti con patrimoni di una certa consistenza rispetto al proprio reddito o alla rendita che il patrimonio stesso garantisce a «pagare in un anno un’imposta superiore all’intiero loro reddito». «Certo è - scrive - che la massima parte dei contribuenti non ha i mezzi di pagare "col reddito", né in uno né in due anni, una straordinaria patri- moniale che voglia essere ta- le sul serio». Per la cronaca, nel marzo 1947 la patrimoniale passa in versione assai «soft». Lo stesso Einaudi, sul Corriere della Sera, replicherà l’invito a non coltivare grandi speranze sugli effetti dell’imposta.
Ma al di là della questione di attualità nell’Italia del ‘46 come in quella del 2011, quel che colpisce nel testo è il proporsi anche come manifesto per una fiscalità equa: «Semplificare il groviglio, ridurre il numero, abbassare la scala delle aliquote delle imposte sul reddito è la condizione essenziale perché gli accertamenti e le riscossioni cessino di essere un inganno, anzi una farsa». Einaudi ammette che «oggi la frode è provoca- ta dalla legge» e vorrebbe ap- punto un modello diverso nel rapporto tra contribuente e Stato. Quale? Il faro, ovvia- mente, è quello dell’Inghilterra, con la sua «income tax»; un Paese dove «non si parla di imposte straordinarie patrimoniali» perché «gli inglesi col loro solido buon senso hanno preferito di manovrare l’arma dell’imposta sul reddito: abbassarla in tempo di pace, rialzarla sino quasi a toccare l’intero reddito (per i ricchissimi) in tempo di guerra e tenerla alta, sebbene un po’ meno alta, nei primi anni del dopo guerra». E’ il sogno destinato a rimanere tale per un Paese dove invece «gli italiani hanno sentito gran bei discorsi sulla necessità di sgravare i contribuenti, ma i fatti hanno insegnato ad essi che le imposte crescono sempre». Italia, 1946.
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