Chissà in quanti porticcioli estivi un dirigente d’azienda, furioso per le tre annate di «contributo di solidarietà» che gli toccherà pagare, osserva dal suo gommone il motoscafo assai più grande del libero professionista. Si domanda se per caso quello là dal nuovo tributo non sia esente, perché dichiara meno di 90.000 euro. Ancor più sospetterà che l’enorme yacht più oltre, di cui si ignora la vera proprietà, faccia capo a un nullatenente o a uno «scudato». Attorno alle tavole di questo Ferragosto di maxi-manovra, si discorrerà inevitabilmente di evasione fiscale. Torneranno argomenti che, a fasi alterne, si ascoltano da decenni; soltanto più arrabbiati. Paghino per primi gli evasori! Il guaio è che gli evasori sono sempre gli altri. Qualcun altro da accusare si trova sempre, in un Paese dove, secondo stime ragionevoli, ogni cento persone ci sono duecentomila euro sottratti al fisco (scagli la prima pietra chi non ha tralasciato mai di chiedere al ristorante la ricevuta). Né si può addossare tutta la colpa alla «casta». Se quasi tutti i politici sono convinti - , beninteso che a combattere sul serio l’evasione tributaria si perdano le elezioni, qualche ragione ci sarà. Quante promesse di condonare multe si sono ascoltate prima delle ultime elezioni comunali? E l’altro giorno inveiva ancora contro Equitalia Umberto Bossi, pur convinto che i sacrifici si debbano fare. Sembra uno dei peggiori circoli viziosi in cui l’Italia è riuscita a cacciarsi. I lavoratori autonomi, che pagano autotassandosi, sono il 25% circa del Paese. Come quota sulla popolazione, è il doppio che in Germania; più del triplo degli Stati Uniti, che pure, come tutti sanno, sono il luogo più propizio alla libera impresa.
Su un quarto degli elettori dunque non si può infierire all’ingrosso. Sono tanti, e non tutti se la passano bene. Ma forse sono così tanti perché si è sempre chiuso un occhio su quante tasse pagano. Da stime abbastanza attendibili parrebbe che il commerciante e l’artigiano medi nascondano al fisco circa la metà dei guadagni, il professionista un terzo. Naturalmente sono tanti anche gli onesti; chi fattura soprattutto per il settore pubblico o per grandi imprese lo è per forza. In una economia con vaste aree di sommerso o di illegalità, per alcuni l’evasione è una maniera di sopravvivere (sono da sempre rarissimi gli idraulici che emettono fatture, ma ora li incalza la concorrenza degli idraulici immigrati, che costano meno). Nell’insieme, purtroppo, l’evasione favorisce le imprese meno efficienti; le spinge a restare piccole, per continuare a sfuggire al fisco. Ha quindi a che fare con il ristagno della produttività che affligge l’economia italiana. Perfino se il pericolo incombe risulta difficile agire. Nell’ottobre 1992, quando il Tesoro rischiava di non poter pagare gli stipendi perché nessuno comprava i Bot, infuriava la protesta contro la norma che imponeva ai titolari di impresa minore di dichiarare redditi almeno pari a quelli dei loro dipendenti. Alla guida della lotta c’era un tal Sergio Billé, poi presidente della Confcommercio travolto da uno scandalo, mesi fa condannato a tre anni per corruzione. La minimum tax (termine che negli Usa indica tutt’altro) di allora era una norma rozza, ma fin dall’inizio presentata come temporanea, giustificata con i rischi che correva il Paese. Fu invece letale per il consenso alla Democrazia cristiana. Venne anche da lì, un anno dopo, la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, che fino alla campagna elettorale del 2008 l’evasione l’ha a volte giustificata. Tuttavia combattere la frode fiscale non è impossibile. Lo dimostra anche l’esperienza recente. Nella fase iniziale dell’attuale legislatura, quando nel 2008 furono abrogate misure del governo precedente definite «poliziesche», l’evasione è cresciuta (secondo l’indice ritenuto dagli esperti più significativo, il rapporto fra Iva interna e Pil). Dopo che, a partire dall’autunno 2009, Giulio Tremonti ha a poco a poco cambiato strada, il recupero di entrate non è mancato. E’ possibile andare avanti senza vessare nessuno con troppe pratiche o controlli pignoli, soprattutto con la trasparenza: tracciabilità dei pagamenti, elenchi dei clienti e dei fornitori, e, come avviene in quasi tutti gli altri Paesi, accesso del fisco ai conti bancari.
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