Tema del libro è il bilancio di un Paese fragile, che non ammette di esserlo. Fragile socialmente, in primo luogo, segnato da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà, e soprattutto d’impoverimento.
Ma fragile anche moralmente, nella tenuta dei suoi sentimenti collettivi, dei valori condivisi, nell’atteggiarsi delle relazioni, sempre più spesso attraversate da venature di rancore. E, naturalmente, fragile politicamente, nell’assetto «liquido» delle sue istituzioni, nei processi in cui si esprime una cittadinanza in larga misura lesionata.
Un Paese abissalmente distante dall’immagine che offre di sé, dal racconto apologetico che monopolizza il discorso pubblico sovrapponendosi alla realtà fino a renderla irriconoscibile ai propri stessi protagonisti.
Da quando la crisi economica ha cominciato a mordere anche sulle fasce finora considerate relativamente «forti» del mercato del lavoro (titolari di posto fisso, lavoratori autonomi....), molti italiani si trovano a vivere «in bilico» tra standard alti di consumo e il baratro dell’indigenza. Gli italiani impoveriti oscillano tra paura e rancore, tra depressione e aggressività, tra il senso del proprio fallimento personale e la tentazione di trovare un capro espiatorio. La middle class che strutturava la propria autostima sulla distanza dagli «ultimi» tende a resistere con le unghie e con i denti facendo prevalere l’atomizzazione egoistica del «si salvi chi può» e del «mors tua vita mea», in una tendenziale guerra dei penultimi contro gli ultimi, esemplificata dal grido sempre più diffuso: «perché a loro sì e a noi no?».
Viviamo sempre piú in una società sfarinata, segnata dalla dissipazione dei legami, dei nessi comunitari. Ma la questione della povertà («relativa» o «assoluta») in Italia va affrontata con coraggio, organicità e sistematicità. Perché lottare contro la povertà non può certo significare rimuovere i poveri dalla società e farli scomparire dalla scena mediatica.
Dal 2007 a capo della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale, Marco Revelli scava tra le pieghe del processo di «modernizzazione regressiva» che sta caratterizzando il nostro Paese, che ha creduto di crescere declinando, di guadagnare posizioni perdendo in realtà terreno.
Tra il 1998 e il 2009, fatta 100 la media annuale del Prodotto Interno Lordo pro capite di tutti gli Stati dell'Unione Europea, l'Italia è letteralmente crollata, perdendo in un decennio ben 18 punti. Occupava la parte alta della classifica nel 1998, 20 punti sopra la media europea. Nel 2009 era finita a quota 102, appena sopra la linea di galleggiamento. E' in assoluto il Paese che ha perduto più posizioni in Europa.
Una Vela che esplora le fragilità - economiche, morali e politiche - di un'Italia «abissalmente distante dall'immagine che offre di sé»: un'argomentazione sostenuta da dati statistici e dall'analisi del linguaggio del potere e della comunicazione mediatica - dai messaggi rassicuranti all'opulenza ostentata. Emerge il ritratto di una nazione dal profilo piatto, che ha liquidato i vecchi punti di forza senza crearne di nuovi e dove ci si ritrova, «se non più poveri tecnicamente, certamente più vulnerabili e arretrati», nel mezzo di una terra di nessuno in cui maturano, o trovano terreno fertile, le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali. Solitudini e crisi d'identità in grado di sfregiare l'antropologia del nostro paese, tra intolleranza per i deboli e il simmetrico eccesso di tolleranza per i vizi dei potenti.
Al centro della forbice sempre più ampia tra ricchezza e povertà, i temi cruciali dell'eguaglianza sociale, della qualità della democrazia, dell'indebolimento dei diritti e del concetto di cittadinanza.
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