Una delle artiste preferite: Tamara De Lempicka, sofisticata, ribelle ed eclettica, fu la ritrattista del jet set degli Anni 30.
Estrosa, trasgressiva, emancipata, anticonformista, seduttrice nell’intreccio di amori e disamori bisessuali, insofferente ai vincoli, insomma una donna moderna già ai tempi suoi, gli anni folli ‘20 e ‘30 del secolo scorso: questo era Tamara de Lempicka. Nata a Varsavia in data incerta, forse 1898, Tamara Rosalia Gurwik-Gorska, poliglotta, cresciuta tra i fasti morenti della Russia zarista, profuga a Parigi nel ‘18, scelse di presentarsi al Salon d’Automne nel ‘22 come il russo signor Lempitzki (dal cognome del marito Tadeusz Lempicki): era convinta che per un uomo le vie dell’arte fossero più facili, proprio mentre la moda russa imperversava a Parigi. Poi divenne cittadina del mondo, protagonista del jet set cosmopolita che oscillava fra l’Europa e l’America (a Beverly Hills approdò in compagnia del secondo marito barone Raul Kuffner). Il successo della sua arte dall’acuta e ambigua sensibilità divenne planetario: era la ritrattista del bel mondo internazionale.
«Regina della modernità» venne definita per la capacità di unire lo sguardo contemporaneo all’antico, nonché per l’attenzione al «marketing» e alla visibilità della propria immagine in anticipo sui tempi. Appassionata di cinema, foto, grafica pubblicitaria, moda, si calò in tutto da ammiratrice e protagonista. Riuscì ad ammaliare personaggi come Marinetti, Prampolini (è una scoperta), D'Annunzio, poi Gide che lei ritrae, Dalí, star di Hollywood come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Louise Brooks. E nel dopoguerra anche Andy Warhol fu soggiogato dai suoi aspetti moderni. Ora il Complesso del Vittoriano a Roma la celebra con una preziosa mostra che su due piani schiera in campo 80 dipinti, una prima parte dagli esordi al ‘39, la seconda dal ‘40 al ‘57. Li affiancano 30 disegni, 50 foto in parte inedite, due film, e le opere di 13 artisti polacchi a lei vicini. Un omaggio curato con passione da Gioia Mori (autrice della personale a Palazzo Reale di Milano nel 2006), promosso e realizzato da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicolosi. Le opere, poderosi ritratti, voluttuosi nudi femminili, pregevoli nature morte, interni di case, qualche concessione all’umanità sofferente che da profuga sapeva catturare e apprezzare, accanto a nobili, ricchi, famosi, provengono da musei internazionali e collezionisti gelosi come gli attori Jack Nicholson e Anjelica Huston. Di Nicholson è (con altri 4 dipinti) l’inquietante ritratto in alta uniforme del Gran Duca Gabriele, 1926, dal cadaverico volto consunto da malattia, a contrasto con il rosso sfolgorante della giacca ricoperta di alamari e medaglie.
La sua pittura oscilla è influenzata da avanguardie e movimenti contemporanei (Costruttivismo russo, Futurismo, Cubismo, Realismo Magico). Frequenta le lezioni di Maurice Denis e di André Lothe, con lo sguardo spalancato ai maestri italiani del Rinascimento, scrive a D’Annunzio di studiare Pontormo, cita Carpaccio, ripensa Botticelli, né trascura la statuaria romana o le levigatezze di Hayez, ma soprattutto attinge a Ingres, maestro di linee e forme. È lui all’origine di dipinti come i nudi del ‘23-25, quando non incrocia il Vermeer de La ragazza con l’orecchino, rinverdito in Ragazza con le viole, 1945. Il suo estro sta proprio nel mescolare maniere e stili diversi come in un calderone ribollente trasformandoli in cifra personale che tutto domina e avvolge, fino a renderla unica come icona del Déco.
Le linee sinuose, i volumi scultorei, le superfici smaltate, i colori splendenti, i blu e verdi si esaltano nelle amazzoni da lei amate, Ira Perrot in Il telefono II 1930, e nei 5 nudi provocanti di Rafaela, per la prima volta presentati insieme. Caschetto alla garçonne, occhi di ghiaccio, labbra rosse carnose, lunghe dita dalle unghie verniciate (nutriva un’ossessione per le mani), le sue eroine muovono al volante di una Bugatti (lei girava in una Renault gialla) con sciarpe svolazzanti, sigaretta in bocca, sedotte dalla velocità e dai miti del progresso, come i grattacieli che vediamo sul fondo dei dipinti dopo il soggiorno negli Usa del ‘29. Riservava tenerezza, tinte rosate o il bianco, per la figlia Kizette, immortalata a Cannes nel 1936 in Kizette in rosa. Agli uomini concedeva eleganza, disinvoltura, pose o atteggiamenti studiati, un certo mistero come nel memorabile Ritratto del principe Eristoff dal fondo allusivo, o quello del marchese d'Affitto. Morì a Cuernava nel 1980, onori e successi alle spalle, distribuendo parte cospicua dell’eredità a orfanotrofi o bisognosi.
FIORELLA MINERVINO - La Stampa
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