Forse in pochi lo sanno che il formaggio "Piacentinu Ennese" il 14 febbraio scorso è stato il millesimo prodotto di qualità riconosciuto dalla Ue. Un traguardo che conferma un trend: il nostro Paese, con le sue 221 specialità di qualità protette, è leader in Europa nel settore agroalimentare davanti alla Francia e alla Spagna per numero di prodotti a Denominazione controllata (Dop), Indicazione geografica prodotta (Igp) e Specialità tradizionali garantite (Stg). I prodotti italiani di qualità, protetti dal riconoscimento comunitario, hanno sviluppato lo scorso anno un fatturato al consumo superiore ai 9 miliardi di euro, dei quali circa 1,5 realizzati sui mercati esteri. E’ la testimonianza che molti prodotti nazionali rappresentano il fiore all’occhiello, in termini di qualità, del panorama agroalimentare internazionale. Il caso del formaggio "Piacentinu Ennese" è emblematico: «E’ una specialità di nicchia, prodotta ancora con tecniche tradizionali — spiega Gaetano Nicoletti, proprietario del più grande caseificio di Enna, il Cavalcatore, con un giro di affari di 3 milioni di euro l’anno — Le tecnologie e le attrezzature sono quelle utilizzate dal pecorino, con la sola aggiunta dello zafferano al latte prima di essere coagulato. E proprio lo zafferano, che costa 10 euro al chilo, rende il prodotto pregiato ma piuttosto caro».
Nel nostro Paese, nel settore Dop e delle Igp, operano 98.200 aziende agricole e allevamenti e 7.600 strutture di trasformazione artigianali. In genere, i più venduti sono i formaggi (in testa Parmigiano Reggiano e Grana Padano) e i salumi (guidano la classifica il prosciutto crudo di Parma e il San Daniele), ma sono cresciute anche altre categorie di prodotto come gli ortofrutticoli (in particolare, mele della Val di Non e dell’Alto Adige, arance rosse di Sicilia e pesche nettarine della Romagna) e gli oli extravergini. In particolare, secondo gli ultimi dati diffusi dalla Coldiretti, il giro di affari dei formaggi è cresciuto nel 2010 grazie alla ripresa del Grana Padano che ha riportato un valore complessivo al consumo di quasi 2,4 miliardi di euro per effetto dell’aumento del 5,3 per cento dei consumi familiari e del boom nell’export cresciuto del 7,1 per cento in Europa, del 14,8 per cento in America e del 27 per cento in Asia. Buoni risultati anche per il Prosciutto di Parma, che ha riportato lo scorso anno il record delle vendite negli Usa, con un incremento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.
Sono numeri, questi, che danno nuova linfa all’industria agroalimentare italiana che ha subito i contraccolpi della crisi, seppure con dinamiche meno pesanti rispetto ad altri comparti. Da un dossier di Federalimentare, relativo alla spesa dei consumatori in tempo di crisi, emerge infatti che sono pochi gli italiani che hanno ridotto la propria spesa alimentare, a fronte di tagli ben più importanti per altre voci del budget familiare. Non solo, secondo un’indagine Coldiretti/Sgw, la vittoria dei prodotti legati al territorio è confermata dal fatto che quasi due terzi degli italiani (65 per cento) si sentirebbero più garantiti da un marchio degli agricoltori italiani rispetto al marchio industriale (13 per cento) e a quello della distribuzione commerciale (8 per cento).
Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano quando ci si addentra nello spinoso mondo delle frodi alimentari, che non sono un fenomeno circoscritto: a fronte di esportazioni per 20 miliardi di euro, la contraffazione nei paesi stranieri, giocata su nomi e marchi che richiamano l’Italia, è stimata in oltre 60 miliardi di euro (dati Coldiretti). Oltre al danno economico per il nostro Paese, la contraffazione comporta un danno d’immagine: perché il prodotto contraffatto non avrà mai i requisiti di qualità e sicurezza del vero made in Italy. La contraffazione è solo una parte del problema, l’altra è relativa alla mancanza di trasparenza nella vendita dei prodotti e i troppi passaggi dal produttore al consumatore, soprattutto riguardo alla merce venduta dalla grande distribuzione.
Contraffazione e poca trasparenza, due facce della stessa medaglia. Ma questi due problemi possono essere risolti? La prima risposta è arrivata a gennaio con il via libera al ddl che impone l’obbligo dell’etichettatura sui prodotti alimentari. Secondo il rapporto ColdirettiEurispes, circa un terzo (33 per cento) della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, per un valore di 51 miliardi di euro di fatturato, deriva da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio made in Italy, in quanto la legislazione, sino ad oggi, lo consentiva. Ora, invece, per vendere prodotti agroalimentari diventa obbligatorio indicare su tutti i cibi nell’etichetta luogo di origine e di provenienza. La seconda risposta al quesito la fornisce la Coldiretti: «E’ necessario costruire — sottolinea il presidente Sergio Marini — un grande sistema agroalimentare, che premi i produttori e offra ai consumatori prodotti di qualità».
In attesa di realizzare questo ambizioso progetto, permane il rischio che i prodotti made in Italy trovino sempre meno spazio sugli scaffali di supermercati ed ipermercati nazionali, in favore dei prodotti stranieri. E il cavallo di Troia per l’invasione sembra essere proprio la grande distribuzione estera che, negli anni, ha colonizzato il territorio facendo dell’Italia un paese che nell’alimentare dipende ormai per oltre il 65 per cento dalle maxicatene straniere. «E’ un ostacolo per la vendita dei nostri prodotti, perché la Gdo straniera fa poca differenza e privilegia i propri fornitori — sottolinea Salvatore Giardina, presidente della Azienda Agricola Fratelli Giardina di Siracusa, produttrice di agrumi e ortaggi — Noi siamo riusciti a stringere una rapporto diretto, senza intermediari, con la Coop da 20 anni. Ma non basta: abbiamo bisogno di più sbocchi».
Vito De Ceglia
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