La decisione degli eredi del fondatore Sotirio Bulgari di cedere il controllo della propria azienda merita rispetto. Eppure, quando la famiglia di uno dei gruppi italiani giunto a superare il miliardo di euro di ricavi (nel 2010) decide di cedere il controllo, abbiamo il dovere di cercare di capirne le ragioni. Qualcuno sostiene che la ragione della cessione è solo un tema di strategia aziendale: Bulgari non aveva le dimensioni sufficienti per competere nel settore del lusso a differenza di Hermès, un’altra azienda che, come noto, interessa a Lvmh. Ma come si calcolano esattamente le dimensioni necessarie per competere con successo in un settore? Non credo che sia così facile definire una soglia minima necessaria. Se lo fosse, allora dovremmo ipotizzare che quasi tutte le aziende del lusso italiano sono in vendita perché non potranno essere competitive. Il che mi pare palesemente irragionevole.
In verità non esistono soglie minime puntualmente definibili e la dimensione è una variabile strategica da inserire in una equazione a più variabili che porta a definire soglie diverse a seconda del posizionamento, dei mercati presidiati, del profitto atteso e così via. Come sto insegnando in questi giorni ai miei studenti in Bocconi, Campari quando ha iniziato il suo percorso di crescita tramite acquisizioni nel 1994 aveva una dimensione pari a un ventesimo di quella del leader e oggi è grande un decimo del leader (che, tra l’altro, non è più lo stesso), ma non ho mai sentito il presidente Luca Garavoglia sostenere di non avere le dimensioni sufficienti per competere con soddisfazione nel settore degli spirit .
Avanzo, allora, un’altra ipotesi.
Molti osservatori in questi anni si sono battuti contro il familismo di alcune famiglie imprenditoriali che blocca lo sviluppo possibile delle aziende controllate. Se per familismo intendiamo una logica che induce ad affidare la gestione dell’azienda a familiari incapaci, a depauperare l’azienda con distribuzione di risorse ingenti ai soci sottraendole allo sviluppo dell’azienda o a impegnarsi in costosi piani di diversificazione solo per impegnare qualche familiare, la battaglia è del tutto opportuna.
Un po’ di commentatori però hanno sostenuto che proprio per evitare il rischio che si affermi una logica familistica all’interno delle imprese familiari la soluzione migliore sarebbe quella di allontanare il più possibile i familiari dall’azienda. Così ragionando, si arriva a capire perché Hermès ha resistito alle proposte del gruppo Lvmh e perché la famiglia Bulgari ha deciso di cedere il controllo dell’azienda fondata e controllata per decenni. In una intervista a questo giornale, Francesco Trapani ha detto: «La nostra è una famiglia unita ma composta da persone con età molto diverse e che, dopo me e i miei zii, non hanno il desiderio di fare gli imprenditori». Se in una famiglia imprenditoriale non c’è nessuno che sia innamorato del «mestiere» dell’imprenditore, che non sia innamorato dell’azienda della famiglia, è impossibile rifiutare l’offerta di un concorrente disposto a pagare 30 o 40 anni di dividendi futuri.
Se non vogliamo ritrovarci tra qualche anno senza un buon numero di aziende familiari a controllo italiano allora dobbiamo finirla di chiedere che le famiglie facciano un passo indietro, ma dobbiamo chiedere alle famiglie di educare i propri figli e figlie a svolgere il ruolo di «azionisti informati e partecipi», a essere orgogliosi della storia della propria famiglia, a essere consapevoli della loro responsabilità anche sociale. Dobbiamo fare di tutto perché questi giovani arrivino a dire: «Mi interessa vedere come una impresa familiare può svilupparsi nel lungo termine. L’orgoglio per le proprie radici non è un ostacolo per la crescita. Ci sono tante opportunità nel futuro, dobbiamo prepararci per affrontarle con successo». Sono le parole di John Elkann nella sua recente intervista al Financial Times.
Guido Corbetta - Professore di Strategia delle aziende familiari università
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