Per inciso nel fine anno sono andato in Israele e il timbro l'ho voluto assolutamente.
Il libro di Battista per chi non riconosce la legittimità dello Stato di Israele
Reduce da un indisponente interrogatorio ai controlli di sicurezza in partenza, il viaggiatore appena sbarcato si presenta allo sportello doganale dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e si sente formulare un’altra domanda spiazzante. «Il timbro lo vuole sul passaporto o a parte?». La maggior parte dei Paesi arabi, infatti, anche quelli lontani e niente affatto belligeranti, nega l’ingresso a chi porta il timbro d’Israele marchiato sul documento, a prescindere dalla sua nazionalità. È una forma di negazione bislacca, in fondo innocua e facilmente aggirabile: chi non esclude di recarsi nell’universo islamico si fa timbrare un foglio da restituire all’uscita da Israele, lasciando intonso il passaporto. Questa limitazione è dunque una nota quasi folkloristica, ma carica di un significato storico pregnante. Prima ancora che un nemico da combattere, Israele è da sempre per il fronte arabo una realtà da negare, mentalmente e materialmente. Nelle sue invettive, Ahmadinejad non menziona mai per nome il suo destinatario: è «l’entità sionista», un’ombra vaga e fragile, senza consistenza.
Questa negazione «esistenziale» del nemico non è solo un radicalizzare il conflitto, non è solo o necessariamente la spia di una volontà di annientamento. Prima ancora che ostilità assoluta, indica un modo di pensare. È una caratteristica di quel conflitto che da decenni sta alla ribalta della cronaca mondiale, è l’espressione, magari subliminale, del rifiuto di considerare Israele e gli ebrei come una realtà normale o normalizzabile. Il sionismo e lo Stato d’Israele sarebbero una contraddizione in termini, un’esistenza fasulla. A colui che, in modi più o meno obliqui e confessi, non è disposto a riconoscere la legittimità dello Stato ebraico, il diritto degli ebrei a esercitare l’autodeterminazione storica prima ancora che politica, è dedicato il nuovo libro di Pierluigi Battista, Lettera a un amico antisionista (Rizzoli, pp. 120, euro 17,50). Non un pamphlet ma decisamente di più, come attesta un illustre precedente, di pari titolo: «Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente “antisionista”. E io dico: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei… E che cos’è l’antisionismo? È negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell’Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. È una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio».
Non sono parole di un falco colonial-imperialista, ma nientemeno che di Martin Luther King, scritte nel 1967, subito dopo la guerra dei Sei Giorni. Battista, che si collega indirettamente, per contro, anche alla Lettera a un amico ebreo di Sergio Romano, ripercorre in questo suo nuovo libro gli eventi successivi, focalizza lo sguardo attento sulle costanti (molte, purtroppo) e sui cambiamenti che delimitano ora la questione israelo-palestinese. Ribadisce l’ovvia legittimità delle critiche alle politiche di governo, spiega qual è la differenza tra questo esercizio e l’«ostilità esistenziale». Illustra la particolarità di questo conflitto: la tragedia di rappresentare un simbolo, oltre alla tragedia stessa - guerre, vittime, morti. La «sublimazione» del conflitto, che è la causa della «dismisura» di visibilità e mobilitazione di cui Battista fornisce un’ampia disamina, è tra le cause del suo stallo.
Il sacrosanto diritto dei palestinesi all’autodeterminazione (negata peraltro dal fronte arabo che rifiutò la risoluzione Onu del novembre 1947 con cui si sanciva la nascita di due Stati palestinesi - uno arabo e uno ebraico) confligge, oltre che con il triste presente politico, anche con la «trascendenza» che le hanno assegnato i filopalestinesi e antisionisti (ma perché le due cose devono necessariamente negarsi a vicenda?). Diventata bandiera universale, la questione palestinese si scolla dalla realtà e stagna nel pantano di un presente un po’ rabbioso e un po’ rassegnato, per colpa non solo di un Israele aggressivo o di un’autonomia palestinese passiva, ma anche di quella schiera di amici che l’hanno imbalsamata nell’«incarnazione, il paradigma, il simbolo della Vittima».
Elena Loewenthal - La Stampa
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