Almeno il prossimo 1 gennaio facciamone a meno. Perché mai noi italiani dovremmo iniziare il nuovo anno ascoltando orchestre e direttori suonare la Marcia di Radetzky mentre battiamo allegri le mani?
Perché cominciare il 2011, e le celebrazioni per i 150 anni della nostra identità nazionale, rendendo omaggio a Josef Radetzky, il feldmaresciallo austriaco che nella battaglia di Curtatone massacrò centinaia di studenti toscani venuti a combattere per l'indipendenza? Che a Custoza umiliò il re Carlo Alberto, poi assediò e vinse per fame e colera la Repubblica veneziana del 1849 e, nominato Governatore generale del Lombardo Veneto, fece eseguire mille condanne a morte di patrioti e diede l'ordine di bastonare in pubblico e di saccheggiare le case e i palazzi di chi era sospettato di aver simpatizzato con i primi moti del Risorgimento?
Come se i francesi celebrassero Bismarck, o i polacchi Stalin.
Johann Strauss padre battezzò la sua più celebre marcetta il 31 agosto 1848, in un caffè all'aperto di Vienna per festeggiare «la Gran vittoria, con allegorica e simbolica rappresentazione e luminarie eccezionali, in onore dei nostri coraggiosi soldati in Italia». La Radetzky-Marsch gli è venuta bene: sbruffona e orecchiabile, perfetta per una sfilata di allegre truppe vittoriose, ammiccante verso il pubblico.
Da professionista e protagonista della vita musicale del tempo, Strauss ha compiuto il lavoro per il quale era stato pagato.
Ma non creda di avere il monopolio del genere. Un secolo dopo, Nino Rota ha saputo far meglio. Per la scena finale di 8½ di Federico Fellini, ha creato una musica che ci rappresenta alla perfezione: tutti in cerchio a correre intorno al nulla, uniti in una danza senza inizio e senza fine. L'ha scritta nel 1963, ma sembra oggi e forse anche domani: quei personaggi che girano a vuoto siamo noi. Smarriti, ma almeno pacifici, perfino allegri. E appena il direttore d'orchestra darà il cenno, partirà benissimo il battito cadenzato delle mani.
Radetzky quest'anno resta consegnato in caserma, a meditare sui suoi misfatti.
SANDRO CAPPELLETTO
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