domenica 7 novembre 2010

Non c'è libertà senza Tradizione: la terza via inglese




L'Italia ha 150 anni ed è sempre in cerca di una comunità politica


Ai nostri giorni, il ‘pluralismo radicale’ —una categoria in cui possiamo ricomprendere sia le appartenenze di ‘gender’ sia i partiti e i movimenti che, a ragione o a torto, si sentono profondamente estranei alla ‘comunità nazionale’, riscoprono le ‘radici’, chiedono amplissime autonomie politiche e culturali, avanzano rivendicazioni ieri impensabili sempre accompagnate dall’ombra minacciosa delle secessione, pretendono un risarcimento per i secoli di oppressione e di soffocamento della lussureggiante vita ‘locale’ —relegando sempre più tra le ombre dell’oblio quello ‘debole’, ottocentesco— definito dalla miriade degli interessi e dei valori che si confrontavano, entravano in competizione, trovavano infine un accordo o un modus vivendi all’interno di una civiltà i cui codici cristiano-illuministico-romantici erano accettati da tutti—rischia di far dimenticare il rapporto tra Stato nazionale e i progressi della società civile, che i nostri grandi storici — da Federico Chabod a Rosario Romeo — avevano illustrato in opere che rimangono tra le espressioni più alte della cultura italiana.
Ma torniamo al pluralismo in senso forte e poniamo, per ipotesi, che finalmente si venga incontro alle sue istanze. Sotto un certo profilo, innegabilmente, ci troveremmo di fronte a un ampliamento dei diritti. La famiglia islamica non tollera che i figli siedano sui banchi di un aula in cui campeggia il crocifisso? Tale ‘diritto di libertà’  le va accordato e pertanto una circolare ministeriale deve prescrivere  non solo la rimozione del simbolo più alto della Cristianità ma anche il divieto di far presepi o di allestire alberi di Natale nelle scuole. La Lega chiede che dai libri di testo si espungano le pagine in cui si mettano in luce i meriti di Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele, Cavour (quest’ultimo il peggiore di tutti!) per sostituirle con i racconti delle ‘lagrime e del sangue’ che è costata la ‘conquista regia’ con la sua unificazione coatta e l’imposizione all’intera penisola del suo centralismo ‘prefascista’? Accontentata, nelle regioni del Nord, il reclutamento di insegnanti e la politica scolastica terranno conto dei ‘diritti’ e delle libertà dei padani. I cattolici lefebvriani chiedono di essere esonerati dalle lezioni di filosofia tenute da insegnanti atei, marxisti o liberali, invocando la ‘par condicio’col diritto attualmente riconosciuto all’esonero dalle lezioni di religione? Accontentati anch’essi: non si può pretendere che si assista a lezioni sull’evoluzionismo darwiniano senza batter ciglio!
In tutti questi casi, la sfera dei diritti si è ampliata a dismisura, sia forzando le tradizioni culturali nelle quali lo Stato nazionale si riconosceva, per lo più tacitamente; sia forzando la sua particolare forma di ‘laicità’. Il problema, però, a questo punto, si complica drammaticamente. Istituzionalizzare il pluralismo, infatti, non basta. I diritti, infatti, hanno come naturale corrispettivo i doveri: il diritto di Tizio ad asignifica un obbligo, da parte di Caio, a renderlo efficace con omissioni o con prestazioni da parte sua. La questione non riguarda soltanto il caso facile dei ‘diritti sociali’--dove il diritto di Tizio, nullatenente, all’assistenza sanitaria significa che una parte del reddito di Caio, iscritto nelle liste dei contribuenti,   è destinata a sopperire, attraverso l’imposizione fiscale, ai bisogni di Tizio—ma investe l’intero campo dei diritti: se una donna ha la libertà di indossare il burka, il funzionario pubblico deve rinunciare alla pretesa di verificare l’identità dell’essere umano che si presenta al suo sportello.
In tal modo, però, l’area dei diritti, lungi dall’essersi davvero allargata, è come la classica coperta che tirata ai piedi lascia scoperte le spalle. E quel che è peggio, la comunità rinuncia alla sua cultura politica ma non alla cultura politica, tout court. Essa, infatti, sarebbe tenuta a imporre un ‘credo’ etico-sociale, dei valori forti, a tutti indistintamente. Non tollerare discriminazioni in nessun caso, significa imporre l'ideologia della convivenza coatta, obbligare all’accettazione del diverso anche se ci ripugna, sostituire alla Chiesa cristiana, alla sinagoga ebraica, alla moschea islamica, il Pantheon pagano dove non solo ma dove ciascuno può avanzare, con successo, da accollare  all’intera comunità. Se lo Stato riconosce il titolo di studio rilasciato, puta caso, dalla Facoltà di Filosofia islamica, in cui ci si ferma ad Averroè e ad Avicenna e si considera già Kant un pensatore pericoloso, ateo e materialista, chi esce da quella Facoltà ha gli stessi diritti all’insegnamento di chi ha frequentato corsi che richiedono la conoscenza di Kant e di Galilei, di Bertrand Russell e di Benedetto Croce. Se le coppie di fatto gay vengono pienamente equiparate a quelle eterosessuali, l’adozione e le altre provvidenze destinate alle famiglie tradizionali non possono discriminarle e, quindi, anche chi non è d’accordo è obbligato a far rispettare le  e a rassegnarsi al fatto che una quota minima delle sue imposte serve per procurare l’alloggio comunale ai coniugi ‘diversi’. Tutto questo può essere giusto, equo e quant’altro ma non configura certo la ‘neutralità’ dello Stato dinanzi all’etica e allacivic culture: nei casi ipotizzati, infatti, sono imposti —in nome di diritti indisponibili e, in quanto tali, non soggetti al responso delle urne-- codici di comportamento ispirati a Weltanschuungen che non tutti condividono e i cittadini, per parafrasare Rousseau, ovvero ad agire fingendo di credere che la convivenza dei valori più diversi e opposti sia il valore più alto—principio che, preso alla lettera,non dovrebbe escludere, purché ben disarmati, l’inclusione di nazisti e di comunisti…. In tal modo, non ci troveremmo dinanzi al conflitto tra il vecchio Stato nazionale con i suoi contenuti di valore irriducibili, da una parte, e la nuova convivenza pluralistica, tollerante e laica, dall’altra, bensì a una ‘filosofia politica’, portatrice di una diversa più comprensiva idea del ‘bene’ma altrettanto restia a riconoscere le potenzialità illiberali di un modello di ‘vita buona’ non condiviso (occorre sempre aggiungere:a ragione o a torto) da una parte consistente del gruppo sociale. Nella vita dei singoli e delle collettività, non si sceglie tra un’etica e una metaetica ma tra etiche diverse, nessuna delle quali è stricto sensu, a meno che per ‘laicità’, in politica, non s’intenda la disponibilità a sottoporre le scelte— quelle serie, concrete e gravide di conseguenze-- al dibattito e alla critica pubblica. La decisione del governo francese di non consentire il velo integrale negli uffici pubblici e nei luoghi in cui chi ci sta davanti dev’essere da noi riconoscibile può essere criticata o no ma non è , nel senso di essere super partes e indifferente ai valori, giacché sottintende una filosofia dell’uomo e del cittadino per nulla ‘neutrale’.
Riassumendo, imporre il pluralismo (nel senso forte qui illustrato, beninteso), prescindendo dal consenso e dalla democrazia e richiamandosi ai diritti non disponibili , non rappresenta per il liberalismo una cura ricostituente bensì la somministrazione, da parte dell’autorità virtuosa, dell’olio di ricino, la costrizione a liberarsi di tutti quegli ‘impliciti’ culturali senza i quali i teorici ottocenteschi—si chiamino J. S. Mill o Alexis de Tocqueville, Benjamin Constant o Camillo Benso di Cavour—risulterebbero incomprensibili. In quest’ottica, non scompare certo il diritto degli individui a farsi il presepe o l’albero di Natale in casa: ognuno rimarrebbe libero (fino a quando?) di ritenere certi comportamenti sessuali riprovevoli e ‘contro natura’, ognuno potrebbe ritenere l’Antico Testamento o il Vangelo o il Corano come la ‘parola del Dio vivente’. In tal modo, ciò che più conta e sta a cuore agli individui resterebbe confinato nella privacy un un’età in cui   il concetto di ‘privacy’ si sta sgretolando giacché da tempo designa un’area sempre più compressa, la cui delimitazione rischia di divenire quanto mai incerta (Il reato di vilipendio della religione o della dignità di altri esseri umani, ad esempio, potrebbe venir commesso,oltreché dentro le mura domestiche, in luoghi, come un club di amici che condividono le stesse idee e hanno fondato un circolo culturale: uno spazio incerto, non più privato ma non ancora pubblico). Al di fuori della ristrettissima privacy , quindi, avremo un’amplissima sfera pubblica e in questa la politically correctness si tradurrebbe in un divieto assoluto di discriminazione—v. il processo mediatico cui venne sottoposto tempo fa il Cardinale Biffi per aver detto che, a suo avviso, gli immigrati di lingua spagnola e di religione cristiana pongono meno problemi d’integrazione di quelli di lingua araba e di religione coranica. Ancora una volta è difficile non cogliere la difficoltà della conciliazione tra ‘virtù’ e ‘libertà’.


Una soluzione in grado di mettere insieme diritti e consenso, democrazia sostanziale e libertà negativa (o liberale) sembra quella adottata dal libertarismo nordamericano. Il prezzo pagato, però, e in piena consapevolezza, è l’eliminazione della sfera pubblica e lareductio ad unum dei complessi rapporti interumani al contratto e al diritto privato. Nella teoria di un M. N. Rothbard, ogni individuo, ogni gruppo deve avere la libertà di organizzarsi come meglio crede, sulla base di principi fortemente condivisi anche se ripugnanti per chi non fa parte dell’associazione. Il fondamentalista, in questo modello, è libero di iscrivere il figlio alla Scuola coranica ma l’imprenditore privato—e tali diventano, nella proposta libertaria, quanti si assumono, in regime di concorrenza, le gestione di poste,di pubblica sicurezza, di sanità etc—è libero di non dare impiego al giovane ayatollah. I francofoni del Canada rivendicano il diritto a ignorare l’inglese? Padronissimi di ignorarlo, purché non pretendano di far valere i loro titoli di studio al di fuori del Quebec. E gli esempi si potrebbero, ovviamente, moltiplicare. Non c’è bisogno, forse, di far rilevare a quale risultato si arriverebbe ad essere coerenti in questa linea d’azione. Si assisterebbe a una incontrollabile proliferazione di diritti--ce ne sarebbero di ogni tipo e nei settori più diversi, compreso il diritto del razzista a vivere in una piccola comunità da cui tener lontani ebrei e neri, guardandosi bene, però, dall’interferire nelle decisioni di altre comunità che si regolano secondo principi opposti—in grado di esaurire tutta la gamma possibile e immaginabile della ‘qualità’ e della ‘quantità’. L’assoluta libertà di fare ‘ciascuno a suo modo’, però, amplia i ‘diritti’ in modo provocatorio ma ne restringe paurosamente lo ‘spazio’. Saremmo costretti a vivere, nell’utopia non esaltante degli anarco-capitalisti, in una sterminata costellazione di piccole comunità in cui i diritti diverrebbero come la moneta dell’Albania iper-comunista di Enver Hodja che poteva essere spesa solo tra Tirana e Valona. Certo ogni piccola isola libertaria sarebbe libera di avvalersi delle competenze di chicchessia: il Consiglio Scolastico Trevigiano, ad esempio, potrebbe accogliere la domanda d’insegnamento di un laureato dell’Università di Messina ma il suo titolo di studio non avrebbe più alcun riconoscimento ufficiale in tutto il territorio ‘confederale’ italiano.
Piaccia o no, l’elevato numero dei ‘diritti’ li indebolisce: nel primo caso, quello dello Stato che impone per legge la convivenza e la collaborazione dei ‘diversi’, perché costringendo tutti i cittadini a riconoscere tutti i diritti, in nome del pluralismo istituzionalizzato, crea una situazione da todos caballeros, che ricorda una scena divertente del film di René Clair, Il silenzio è d’oro. Un bey turco, in visita di Stato a Parigi, vuol conoscere la troupe che sta girando un film: se ne entusiasma e regala a tutti—dal regista all’usciere—una medaglia onorifica del suo paese. Con una variante, però, non da poco: nello Stato pluralista, i titoli creano obblighi e aspettative ma il loro conferimento a tutti comporta uno iato tra rispetto e stima –a prescindere dal fatto che  la tolleranza soffoca l’identità; nel secondo,quello dell’arcipelago libertario, perché, eliminate le istituzioni tradizionali o meglio messe in opera le istituzioni-fai-da te, pone nelle mani degli individui risorse dall’uso estremamente limitato, che non valgono più ‘erga omnes’.
Sono sufficienti questi rilievi a motivare la necessità, sempre più avvertita dagli studiosi alieni dalla retorica, del ‘ritorno alla comunità politica’ in nome sia degli stessi diritti sia della democrazia. Lo Stato nazionale era divenuto, nella sua stagione più civile e matura, la quelli che concedeva nascevano da un dibattito pubblico, da una riconferma della propria identità culturale— le ‘libertà’, al plurale, inglesi non potevano non portare all’emancipazione dei cattolici voluta nei primi decenni dell’Ottocento dal liberalconservatore Duca di Wellington—da un allargamento controllato dei gruppi e delle istituzioni meritevoli di protezione. I diritti, come s’è detto, non erano infiniti ma assicuravano a tutti risorse concrete sostenute dalle amministrazioni pubbliche e dai tribunali. In ogni caso, a nessun statista sarebbe venuto in mente di codificarli appellandosi non ai propri connazionali—chiamati a pronunciarsi in merito-- ma all’. I grandi liberali del XIX secolo, a differenza di dittatori totalitari neri e rossi, ritenevano che fosse e non ma per cittadini non intendevano—e il punto è della massima rilevanza—gli appartenenti al ‘Genere Umano’, titolari di diritti e di doveri universali e universalizzabili, uguali sotto ogni latitudine e longitudine, ma uomini in carne ed ossa, radicati in una storia, in una tradizione, in costumi, in credenze religiose che non potevano venir pietrificate negando ogni progresso ma neppure messe da parte in nome dell’uso giacobino della Ragione. Sul piano morale potevano concordare con Montesquieu, quando si rifiutava di compiere azioni che potessero favorire la Francia ma nuocere all’Europa e, ancor più, al mondo, ma , sotto il profilo politico, non vedevano su quale altro terreno, all’infuori di quello comunitario (allora nazionale), si potessero piantare gli alberi dei diritti.



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