Ognuno di noi è quello che riesce a diventare. È così da quando la rivoluzione francese e quella americana posero le basi di una cultura che «cambiò» un futuro fino allora preordinato dalla nascita. Il diritto al merito sembra una certezza acquisita nelle società occidentali mature; eppure, all’interno di questo percorso storico, c’è anche un Paese come l’Italia, che vive in cronica «asfissia» di merito. Cosa denunciata da molti e oggetto di lamentele ricorrenti: la fuga dei cervelli (ora si chiama, più modernamente, brain drain, ma è la stessa storia), l’innovazione che non viene premiata, l’università vecchia e governata da baroni, le scarse opportunità di lavoro, la mediocrità dilagante. Come sintetizza Roger Abravanel in Meritocrazia (Garzanti editore): «La società italiana è profondamente disuguale e statica. Il destino dei figli è legato a quello dei genitori; molto di più di quanto avvenga in altri Paesi. La disuguaglianza fra ricchi e poveri continua ineluttabile». Ma se il merito inteso come risultato di un’alchimia riuscita fra talento e impegno (così lo definì alla fine degli anni Cinquanta il sociologo inglese Michael Young, inventore del termine meritocrazia) si è affermato nelle società anglosassoni, nei Paesi del Nord Europa, in Francia e in Germania, resta un sogno nel cassetto (di pochi) nel nostro Paese. Nonostante che la sua negazione, nelle grandi scelte sociali come nella vita quotidiana, sembri a molti (quasi a tutti) la causa della decadenza italiana. Ovvero della sua scarsa capacità di ideazione, delle misere opportunità di formazione e di lavoro; alla fine, della infelicità stessa degli italiani, visto che la strada sbarrata al merito genera povertà, incertezza del futuro, pessimismo, bassa fecondità, poca voglia di vivere.
Una così ostinata assenza della cultura del merito, impenetrabile ad ogni stimolo venga da un altrove, regge alla crisi e alle critiche. Perché? Probabilmente quell’assenza è riempita da riferimenti culturali differenti, altrettanto strutturati e a loro modo vincenti, una vera e propria «cultura del demerito». Basata in primo luogo sull’enorme forza della famiglia in Italia e sulla sua capacità di far prevalere la logica dell’appartenenza che detta regole spesso in contrasto con quelle della comunità, di cui cerca di limitare riconoscimenti, sia economici sia di prestigio. E il talento senza riconoscimento non vale. Come sottolinea Cristina Palumbo Crocco in Meritocrazia (Rubbettino editore): «Un talento che si esplica senza esercizio e applicazione sembra perdere il suo reale valore. Ad esempio, si può cantare sotto la doccia per diletto. Tuttavia, si merita di essere definito un cantante se si corrisponde a determinati criteri di valutazione sociale. Il talento di per sé è la possibilità che un individuo ha per caratterizzarsi, per esprimersi. Ma per avere merito occorre competere nell’agone sociale, misurarsi con le sfide del proprio tempo».
Sfide bloccate dal familismo che diventa «amorale», per Abravanel, quando «gli individui tentano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo famigliare». Nucleo famigliare che è anche cordata, appartenenza ad un’isola di potere, come denuncia Nicola Gardini, approdato ad una cattedra di Letteratura italiana all’Università di Oxford dopo un percorso ad ostacoli frustrante nell’università italiana, in Baroni (Serie bianca Feltrinelli): «Preoccupati di promuovere solo le loro cause personali, incuranti dello sviluppo del sapere e delle coscienze, i baroni provocano ogni giorno, nella più arrogante certezza dell’impunità, danni incalcolabili al patrimonio umano e intellettuale dell’intero Paese».
Ma il familismo prospera e regge nel tempo anche perché rappresenta una rete di protezione, un paracadute, contro una «sana» competizione che nessuno vuole perché viene considerata utopistica, irrealizzabile. Così come sembra impossibile ridurre le rendite di posizione e il potere delle caste, anche se pare giusto denunciarle (il successo della Casta di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo è una buona cartina di tornasole di questo comune sentire). «Non dimentichiamo che a questo immobilismo contribuisce la nostra tradizione accademica che conserva ancora oggi un concetto di cultura elitario: non crede nel confronto con il grande pubblico, e di conseguenza non lo vuole, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone» aggiunge Luca Formenton, presidente del gruppo editoriale il Saggiatore, e vicepresidente della fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. «Difficilmente - prosegue - un editore riesce in Italia a semplificare, a tradurre in un linguaggio comprensibile a tutti, i volumi prodotti da storici o letterati. Il "sapere" deve restare un privilegio».
Sta di fatto che in Italia regna la sfiducia del merito. E nessuno sembra riuscire ad essere diverso. Perché? C’è senz’altro la paura di restare fuori, di perdere anche quel minimo di garantito che la nostra società, grande alfiere della mediocrità come unico punto di arrivo, sembra distribuire, alla fine, a tutti, o per lo meno, a molti. Basta accontentarsi e non aspirare al meglio. Una paura che ha origini complesse e antiche: qualcuno è convinto che affondi le radici addirittura nelle corporazioni medievali con i loro monopoli di arti e mestieri; altri sostengono che la cultura cattolica abbia tradizionalmente enfatizzato i valori di solidarietà a scapito dell’individualità e del merito, più vicini al mondo anglosassone.
Giovanni Floris, in Mal di merito (Rizzoli editore) mette in evidenza un altro elemento: «La tradizione culturale di matrice socialista e comunista, fortemente egualitaria, tende a leggere i processi di selezione come meccanismi di esclusione sociale, sottolineando come chi gode di una situazione economica di privilegio sia fatalmente favorito rispetto a chi proviene da situazioni di svantaggio». Non a caso i vari sondaggi condotti, anche da enti internazionali, confermano che per gli italiani il valore più importante per arrivare ad una certa posizione è ancora oggi la rete di conoscenze e non il talento, l’impegno, la capacità professionale.
D’altro canto qualche «seme» di merito, come lo chiama Abravanel, c’è anche in Italia. Un esempio per tutti la scuola Normale di Pisa, che dalla sua nascita, voluta nel 1810 da Napoleone, ad oggi mantiene «miracolosamente» la capacità di premiare i migliori. Con quale formula? Spiega il direttore, Salvatore Settis, archeologo, che di merito ha parlato in Quale eccellenza? (Laterza editore): «Se dovessi rispondere con una parola, direi selezione. L’accesso alla Normale è condizionato da esami scritti e orali approfonditi. E può succedere che gli ammessi non coprano tutta la disponibilità di posti. È accaduto anche alla penultima selezione: sono rimasti vacanti 4 posti su 60, nonostante avessero partecipato più di mille studenti». E i docenti? Come è possibile sceglierli senza essere condizionati dai vizi del sistema universitario italiano? «Li prendiamo "dal mercato", evitando i concorsi, perché si tratta di cattedre per trasferimento - risponde Settis -. Quando vogliamo coprire un posto, il docente viene scelto in base a lettere di referenze di colleghi di tutto il mondo, pubblicazioni, ricerche». Un altro pianeta? No, avviene in Italia...
Franca Porciani
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