Nell’autunno del 1847, Goffredo Mameli scrisse il testo de «Il Canto degli Italiani». Scartò quasi subito l’idea di adattarlo a musiche già esistenti e il 10 novembre lo inviò al maestro Michele Novaro. Un suo amico, Carlo Alberto Barilli, anni dopo ricordò «una sera di mezzo settembre» del 1847, quando, a Torino, nella casa di Lorenzo Valerio, «fior di patriota e scrittore», entrò un nuovo ospite, il pittore Ulisse Borzino, che avvicinò Novaro con un foglietto che aveva in tasca: «To’, te lo manda Goffredo». Novaro, raccontò Barilli, lesse e si commosse. Scrisse di getto la musica e l’inno debuttò il 10 dicembre, quando sul piazzale del Santuario di Oregina fu presentato ai cittadini genovesi. Suonava la banda municipale di Sestri Ponente «Casimiro Corradi». C’erano trentamila persone. Impararono il testo e lo cantarono insieme. Da allora, venne esibito in ogni manifestazione. Durante le 5 Giornate di Milano gli insorti lo intonavano a squarciagola. Le autorità cercarono di evitarlo, considerandolo eversivo per via della ispirazione repubblicana del suo autore. Ma non ci riuscirono. E allora pensarono di censurarne l’ultima parte, la più dura contro gli Austriaci.
L’inno aveva dei limiti artistici, tanto che persino Giuseppe Mazzini, amico di Mameli, gli chiese di scriverne un altro. L’avrebbe musicato Giuseppe Verdi e avrebbe dovuto diventare la Marsigliese della nuova Italia. Il risultato, però, pare sia stato catastrofico: la più brutta musica scritta da Giuseppe Verdi su un testo che poi non aveva appassionato nessuno. Invece, il «Canto degli Italiani» non era un capolavoro, ma era piaciuto alle masse popolari e continuò a piacere. Dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura dal testo. E fu proprio intonando l’inno di Mameli che i Mille di Garibaldi partirono per la conquista dell’Italia meridionale. La presa di Roma del 1870 fu salutata dai cori dei patrioti che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri. E alla fine fu proprio Giuseppe Verdi a considerarlo come l’inno nazionale quando lo inserì, accanto alla Marsigliese e a «God Save The Queen», nell’«Inno delle Nazioni», da lui composto in occasione dell’Esposizione Universale di Londra, nel 1864.
Per tutta la fine dell’800 e oltre, «Fratelli d’Italia» rimase molto popolare, anche se osteggiato dai Savoia: per il regno l’inno ufficiale era la «Marcia Reale». Ma già nella guerra libica del 1911-12 le parole di Mameli erano di gran lunga quelle più diffuse fra tutti i canti patriottici vecchi e nuovi. E la stessa cosa accadde durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Marcia su Roma assunsero grande importanza i canti fascisti. Quelli risorgimentali furono tollerati fino al 1932, quando il segretario del partito Achille Starace vietò qualunque canto che non facesse riferimento al Duce o alla Rivoluzione fascista. In seguito, nelle cerimonie ufficiali della Repubblica Sociale, però, venne intonato assieme a «Giovinezza». Il governo italiano, dopo l’8 settembre, aveva adottato come inno «La leggenda del Piave». Finita la guerra, il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei ministri acconsentì all’uso «provvisorio» dell’inno di Mameli come inno nazionale, anche se alcuni volevano confermare «La leggenda del Piave», e altri avrebbero preferito «Va’, pensiero». Quella decisione non diventò, però, mai definitiva.
Goffredo Mameli è la splendida figura di un eroe romantico. Un giovane affascinante, dallo sguardo intenso e dai tratti gentili e regolari. Aveva preso da sua madre, una nobildonna bellissima, che aveva fatto palpitare pure il cuore di Giuseppe Mazzini, assieme a quello di quasi tutta Genova. Goffredo discendeva da una stirpe di marinai soldati, figlio di un comandante di nave da guerra. Diventò poeta a 15 anni e guerriero a 21. Morì in battaglia giovanissimo, a 22 anni, avvolto nella nuvola degli eroi. Lui è quello che rappresenta: il romanticismo, il patriottismo, la poesia che fiorisce sull’azione. Si batte nella campagna del ’48, è al fianco di Garibaldi, e dalla città eterna scrive a Mazzini: «Venite, Roma, repubblica». Muore buttandosi in una battaglia a cui non doveva partecipare. Potrà non piacere come poeta, ma come uomo era onesto, fiero e coraggioso.
Nessun commento:
Posta un commento