di Marco Bellinazzo
Le liberalizzazioni sposano la qualità. Per pizzerie, birrerie, paninoteche, churrascherie e sushi bar inizia l'era dell'eco-charme.Dal prossimo anno la bellezza, la tranquillità e la sobrietà dei locali non rappresenteranno più soltanto una variabile estetica, ma saranno i fattori dai quali dipenderà la vita o la morte degli esercizi commerciali.
Questo mutamento genetico nella ristorazione e nella "movida" sarà una (non la sola) conseguenza della direttiva "servizi" (l'ex famigerata direttiva Bolkestein, quella dell'idraulico polacco pronto a insidiare le casalinghe di mezza Europa). Nelle pieghe del provvedimento con cui l'Italia si appresta a recepire le regole comunitarie c'è infatti una norma che provoca una rivoluzione nei criteri con i quali i comuni possono autorizzare o vietare l'avvio di nuove «attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande ».
Mentre, fino a oggi, i sindaci erano ancorati a rigidi parametri economici, in futuro, dovranno (e potranno) valutare le domande degli aspiranti proprietari e gestori di bar e ristoranti alla luce di più flessibili «indici di qualità del servizio». E, dunque, potranno bloccare o limitare l'inaugurazione di nuove strutture in base alla «sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità». Quindi, dai comuni potrà arrivare un legittimo «no» sia per salvaguardare le zone di pregio artistico, storico, architettonico, sia se si presenta il rischio che ulteriori flussi di avventori e clienti in cerca di svago incidano in modo negativo sull'ordine pubblico e peggiorino le condizioni di vita dei residenti, ledendone «il diritto alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità ». E il divieto potrà (anzi, dovrà) scattare, secondo la direttiva ex Bolkestein, quando l'apertura di un nuovo negozio incrina «i meccanismi di controllo per il consumo di alcolici». Un ombrello legislativo che da Bruxelles protegge e rafforza le ordinanze che nei mesi scorsi, da Milano a Venezia, hanno tentato di frenare schiamazzi e intemperanze notturne.
Si porrà,d'altro canto,un argine al fioccare di provvedimenti proibizionisti, come quelli anti-kebab, spesso frutto della coloritura politica delle giunte, o di malintese tradizioni locali. Non si potrà più fare ricorso, viceversa, al contingentamento numerico dei locali o a criteri legati al reddito della popolazione residente e "fluttuante".
Più in generale, la direttiva servizi (lo schema del decreto di attuazione è stato licenziato dal Governo in prima lettura giovedì scorso, come riferiamo nell'articolo sopra) impatta in maniera significativa sul settore degli esercizi commerciali.
Per quanto riguarda le edicole, per fare un altro esempio, la direttiva indica l'opportunità di valorizzare sempre più la dia (la dichiarazione di inizio attività) per sostituire le autorizzazioni ai fini dell'apertura di nuovi punti vendita, eliminando anche in questo caso la verifica di natura economica, ovvero la prova dell'esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato.
Il settore degli esercizi commerciali peraltro deve fare i conti – tranne che per la somministrazione di bevande ed alimenti rimasta sotto l'egida nazionale (legge 25 agosto 1991, n. 287) – anche con le competenze delle regioni, le quali in questi anni hanno emanato discipline sul fronte delle autorizzazioni e per individuare i requisiti per ottenerle.
Con la conseguenza che si è reso necessario il tentativo di uniformare le griglie di accesso e i parametri per l'esercizio. Anche per evitare il paradosso per cui il possesso di un diploma di scuola secondaria superiore autorizza all'esercizio dell'attività in alcune Regioni e non in altre, dove per esercitare si è costretti a frequentare un corso a pagamento e a sostenerne un esame di abilitazione.
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