L'ultima intervista al mitragliere Pistonami, uno dei sei parà della Folgore vittime dell'attentato a Kabul di ieri.
Il primo caporalmaggiore Giandomenico Pistonami, come il collega di Di Lisio deceduto il 14 luglio scorso, è un mitragliere, quello che sta in ralla, il più esposto perché sbuca con il corpo fuori dal Lince. "Esco tutti i giorni faccio da scorta a materiali e persone", racconta Pistonami, 26 anni di Lubriano (Viterbo): "Il mio è il ruolo più importante della pattuglia, ho più campo visivo e uditivo, con un gesto posso fermare le macchine che passano". Un lavoro pericoloso, di concentrazione e tensione che lascia poco spazio alle emozioni. "Purtroppo la mia famiglia guarda i telegiornali", aggiunge con un sorriso, "ma sono tranquilli quando mi sentono tranquillo, per fortuna ci sono Internet e il telefono". Il posto che occupa Pistonami qualcuno lo chiama 'sedile della morte' e spiega che ormai molti mezzi militari di altri contingenti tengono il militare dentro al blindato con un sistema di comando per pilotare la mitragliatrice fuori.
Per quanto riguarda i nostri, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, pensa di aggiungere una protezione, una sorta di torretta. Il ministro ha anche promesso l'invio, già approvato da un decreto, di due nuovi Tornado, che si aggiungeranno ai due parcheggiati a Mazar-i- Sharif, non appena sarà pronta la pista dell'aeroporto di Herat, sulla cui data di apertura non ci sono tempi certi. I Tornado italiani, come quelli tedeschi, per ora vengono usati come ricognitori, ma il governo non nega la possibilità di aggiungere cannoncini, trasformandoli in mezzi che possono sostenere azioni di combattimento. Ma tutti questi accorgimenti per rendere più sicura la missione arriveranno fuori tempo massimo, comunque dopo il periodo fatale che coincide con la campagna elettorale. Così, mentre in Italia il governo si spacca sulla questione cruciale se rimanere o meno in Afghanistan e la Lega, Bossi in testa, mostra tutto il suo scetticismo, qui i soldati affrontano la loro guerra quotidiana senza nemmeno il conforto di avere alle spalle un esecutivo concorde circa l'utilità del loro impegno. I piani futuri per i nostri sono già stati delineati: tutte le truppe saranno concentrate nel settore ovest, dove avrebbero già dovuto essere, se non fosse che la scadenza del voto ha indotto a rimandare il ridispiegamento.
Il generale Bertolini non ha dubbi: "Dall'Afghanistan non si può ancora andare via. Intanto facciamo parte dell'alleanza Nato e abbiamo degli obblighi verso i paesi amici e questo sarebbe già sufficiente, ma poi penso che se non ci fossero i nostri contingenti, la popolazione vivrebbe peggio senza nessuna protezione. Questo Paese non deve essere abbandonato. L'Afghanistan non significa solo talebani, ma anche persone perbene, basta un fucile per creare un signore della guerra, e noi, verso chi vuole vivere in pace, abbiamo preso un impegno, anche morale".
Un impegno che costa, ma che chi si trova sul terreno, vuole mantenere pur fra qualche dubbio. "Comando una squadra che esce per controllare il percorso prima che passi la pattuglia", spiega il maresciallo Sebastiano Russo, un ventottenne siciliano di Termini Imerese, comandante guastatore dello stesso reggimento di Di Lisio, che per mestiere cerca esplosivi lungo le strade. Un lavoro difficile in un Afghanistan sterrato dove chiunque può fare un buco e nascondere un ordigno rudimentale più arduo da individuare di uno sofisticato: "Si controlla la strada, si notano i cambiamenti, spesso è la gente stessa che ci chiama e ci segnala dove sta la bomba. Molti ci trovano simpatici. È vero, negli ultimi tempi sono stati piazzati più ordigni. È un lavoro rischioso, ma è quello che abbiamo scelto di fare. Non si pensa che si potrebbe morire, ma solo a come far sì che questo non accada".
Il comandante di pattuglia Marcano è un po' più amaro: "A volte ho la sensazione che le persone che curiamo di giorno, magari nei nostri ambulatori, poi la sera imbraccino il fucile contro di noi, forse mi sbaglio e di sicuro noi continueremo ad aiutarli. Cosa mi fa restare qui? Ho una bimba di due anni e ricordo tutte le medicine, le visite che faceva mia moglie quando l'aspettavamo. Qui i bambini sono spesso abbandonati, muoiono di malattie che da noi sono impensabili come la diarrea. Sono i loro occhi a tenermi qui".
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