di ROBERTO MANIA - 9 marzo 2009
MILANO - All'appuntamento arriva in motorino, puntualissima. Si porta dietro, come sempre, tutto il suo ufficio: personal computer e telefono cellulare. Ufficio minimalista e itinerante, da partita Iva o da capitalismo individuale in recessione. Fino a poco più di un anno fa, però, Paola Vassellatti, milanese, 43 anni, era un manager di una multinazionale: direttore del marketing per l'Italia. Rispondeva al presidente della sua area e comandava direttamente su un gruppo di dieci persone. Insomma, un posto di potere. E anche un posto ambito, tanto più al femminile in un Paese che lascia alle donne non più del 3-5% delle poltrone nei consigli di amministrazione, contro una media dell'8% in Europa e del 15% negli Stati Uniti. Posto fisso, dunque, sicuro e stabile. Soldi, benefits e status sociale. Poi, nell'ottobre del 2007, la svolta. Perché la grandi corporation, spesso, non ti cacciano ma ti mettono nelle condizioni di andartene. Quando succede non è difficile capirlo. Più o meno è quello che è accaduto a Paola Vassellatti. Che, allora, accetta di cambiare lavoro e vita. D'altra parte dopo i quaranta è difficile ricollocarsi in un'altra azienda. Perché questo sembra l'unico ambito in cui l'età gioca davvero a favore dei giovani rampanti contro i cinquantenni spremuti e ormai ingombranti. Vassellatti diventa consulente. Un percorso praticamente obbligato per i manager che vengono licenziati o se ne vanno dalle imprese. E la crisi sta colpendo duramente anche i dirigenti: Manageritalia, il sindacato dei manager del terziario, calcola che solo a gennaio in questo settore ne sono stati licenziati più di trecento, tre volte tanto quelli di gennaio 2007, e stima che nell'industria privata siano rimasti senza lavoro circa un migliaio.
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Così anche Vassellatti entra nel mercato del lavoro di serie B: dalla sicurezza, a cominciare dalla busta paga ogni fine mese, alla precarietà della consulenza per le aziende. Dove tutto dipende dalla propria capacità di "vendersi" sul mercato. Va da sé che sarebbe improprio qualsiasi paragone con il mondo degli addetti ai call center o dei ricercatori a contratto o, ancora, dei lavoratori interinali nelle imprese industriali. Riconosce Vassellatti: "La mia è una precarietà di lusso. Comunque meglio del lavoro frustrante nel quale non c'è spazio per decidere nulla". Insomma, un'altra precarietà. Perché precario non è solo il lavoro poco qualificato e a basso salario. A 35 anni, la Vassellatti, diventa dirigente. La formazione è quella classica per una figlia della piccola borghesia meneghina. Micro imprenditore il padre, insegnante la madre, una sorella che diventerà biologa. La scuola dell'obbligo dalle suore e poi la Bocconi, laurea (110/110) in Economia aziendale con specializzazione in marketing. "Io sono stata molto fortuna", dice. "Non ho avuto difficoltà a trovare lavoro. Mi hanno sempre chiamata. E all'epoca era facilissimo: venivi cercato ancor prima di laurearti". Certo, l'epoca è quella del secolo scorso, ma di anni ne sono comunque trascorsi pochi. Sufficienti però per cambiare in profondità le regole del mercato del lavoro. Vassellatti passa da una multinazionale europea che produce birra, dove sale tutti gli scalini di prammatica, product manager, brand manager, group brand manager, alla multinazionale americana per antonomasia: la Coca-Cola. Poi di nuovo nel settore della birra con il più grande produttore del mondo (l'InBev). Dalle multinazionali si vede anche l'Italia, il suo declino, la sua marginalità economica in tanti casi. "Precaria appare l'Italia", sostiene Vassellatti, perché quando c'è da tagliare posti di lavoro o programmi di investimenti, uno dei primi paesi a subire le decisioni è proprio il nostro per le sue lungaggini burocratiche, per le sue incertezze giudiziarie, per la carenza di infrastrutture, per l'alto costo del lavoro. Insomma non basta raggiungere sempre i target per essere apprezzati o garantiti nel posto. "Tutte le strategie delle multinazionali vengono fissate dagli head quarter. E frustrante lavorare così. Peggio della precarietà". Da manager dipendente, Vassellatti lavorava le sue "classiche" dieci e più ore al giorno, weekend compresi. Alzatacce per le conference call, per rispondere alle e-mail, o per prendere un aereo. Perché nella politica di riduzione dei costi delle grandi aziende c'è anche quella di far viaggiare andata e ritorno i propri manager in giornata, risparmiando sulle spese per l'alloggio. "Cosa mi manca? Poco. Forse il budget da poter gestire, gli eventi, le grandi sponsorizzazioni". Dopo l'uscita dalla multinazionale, c'è l'ingresso nell'instabilità. "Ho sempre voluto fare un lavoro che mi piacesse. Per questo, dopo una pausa, ho deciso di restare nel mondo del marketing. E questo il mio ambiente, ho il mio network e qui a Milano ci si conosce tutti. Lavoro su progetti per le aziende. Guadagno meno, certo, ma non ho spese e non pago più il 50% del mio reddito in tasse. Non ho più l'Audi, giro in motorino o con la Smart che poi è un motorino coperto. Ma quello dell'auto è un problema che hanno soltanto gli uomini". La precarietà, ancorché "di lusso", permette di sperimentare nuove strade. Per esempio quella che Vassellatti chiama del "legal marketing" che, per i non addetti ai lavori, è più o meno la promozione degli uffici legali. In Italia pochi avvocati fanno pubblicità anche perché prima della "lenzuolata" di Bersani era vietato. Ora si può fare "ma convincere gli avvocati, che ti guardano con sospetto e distacco, non è facile". Vassellatti insiste nel dire che la qualità della sua vita è migliorata, ma non esita a rimarcare che non sarebbe così se solo avesse un figlio e una famiglia da mantenere. "La crisi comincia a sentirsi. Le aziende tagliano i budget. Bisogna moltiplicare gli sforzi. Ma posso organizzare il mio lavoro calibrandolo su me stessa". Sì, d'accordo, ma il suo futuro? "Precario, ma a modo mio". E la pensione? "Boh!".
MILANO - All'appuntamento arriva in motorino, puntualissima. Si porta dietro, come sempre, tutto il suo ufficio: personal computer e telefono cellulare. Ufficio minimalista e itinerante, da partita Iva o da capitalismo individuale in recessione. Fino a poco più di un anno fa, però, Paola Vassellatti, milanese, 43 anni, era un manager di una multinazionale: direttore del marketing per l'Italia. Rispondeva al presidente della sua area e comandava direttamente su un gruppo di dieci persone. Insomma, un posto di potere. E anche un posto ambito, tanto più al femminile in un Paese che lascia alle donne non più del 3-5% delle poltrone nei consigli di amministrazione, contro una media dell'8% in Europa e del 15% negli Stati Uniti. Posto fisso, dunque, sicuro e stabile. Soldi, benefits e status sociale. Poi, nell'ottobre del 2007, la svolta. Perché la grandi corporation, spesso, non ti cacciano ma ti mettono nelle condizioni di andartene. Quando succede non è difficile capirlo. Più o meno è quello che è accaduto a Paola Vassellatti. Che, allora, accetta di cambiare lavoro e vita. D'altra parte dopo i quaranta è difficile ricollocarsi in un'altra azienda. Perché questo sembra l'unico ambito in cui l'età gioca davvero a favore dei giovani rampanti contro i cinquantenni spremuti e ormai ingombranti. Vassellatti diventa consulente. Un percorso praticamente obbligato per i manager che vengono licenziati o se ne vanno dalle imprese. E la crisi sta colpendo duramente anche i dirigenti: Manageritalia, il sindacato dei manager del terziario, calcola che solo a gennaio in questo settore ne sono stati licenziati più di trecento, tre volte tanto quelli di gennaio 2007, e stima che nell'industria privata siano rimasti senza lavoro circa un migliaio.
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Così anche Vassellatti entra nel mercato del lavoro di serie B: dalla sicurezza, a cominciare dalla busta paga ogni fine mese, alla precarietà della consulenza per le aziende. Dove tutto dipende dalla propria capacità di "vendersi" sul mercato. Va da sé che sarebbe improprio qualsiasi paragone con il mondo degli addetti ai call center o dei ricercatori a contratto o, ancora, dei lavoratori interinali nelle imprese industriali. Riconosce Vassellatti: "La mia è una precarietà di lusso. Comunque meglio del lavoro frustrante nel quale non c'è spazio per decidere nulla". Insomma, un'altra precarietà. Perché precario non è solo il lavoro poco qualificato e a basso salario. A 35 anni, la Vassellatti, diventa dirigente. La formazione è quella classica per una figlia della piccola borghesia meneghina. Micro imprenditore il padre, insegnante la madre, una sorella che diventerà biologa. La scuola dell'obbligo dalle suore e poi la Bocconi, laurea (110/110) in Economia aziendale con specializzazione in marketing. "Io sono stata molto fortuna", dice. "Non ho avuto difficoltà a trovare lavoro. Mi hanno sempre chiamata. E all'epoca era facilissimo: venivi cercato ancor prima di laurearti". Certo, l'epoca è quella del secolo scorso, ma di anni ne sono comunque trascorsi pochi. Sufficienti però per cambiare in profondità le regole del mercato del lavoro. Vassellatti passa da una multinazionale europea che produce birra, dove sale tutti gli scalini di prammatica, product manager, brand manager, group brand manager, alla multinazionale americana per antonomasia: la Coca-Cola. Poi di nuovo nel settore della birra con il più grande produttore del mondo (l'InBev). Dalle multinazionali si vede anche l'Italia, il suo declino, la sua marginalità economica in tanti casi. "Precaria appare l'Italia", sostiene Vassellatti, perché quando c'è da tagliare posti di lavoro o programmi di investimenti, uno dei primi paesi a subire le decisioni è proprio il nostro per le sue lungaggini burocratiche, per le sue incertezze giudiziarie, per la carenza di infrastrutture, per l'alto costo del lavoro. Insomma non basta raggiungere sempre i target per essere apprezzati o garantiti nel posto. "Tutte le strategie delle multinazionali vengono fissate dagli head quarter. E frustrante lavorare così. Peggio della precarietà". Da manager dipendente, Vassellatti lavorava le sue "classiche" dieci e più ore al giorno, weekend compresi. Alzatacce per le conference call, per rispondere alle e-mail, o per prendere un aereo. Perché nella politica di riduzione dei costi delle grandi aziende c'è anche quella di far viaggiare andata e ritorno i propri manager in giornata, risparmiando sulle spese per l'alloggio. "Cosa mi manca? Poco. Forse il budget da poter gestire, gli eventi, le grandi sponsorizzazioni". Dopo l'uscita dalla multinazionale, c'è l'ingresso nell'instabilità. "Ho sempre voluto fare un lavoro che mi piacesse. Per questo, dopo una pausa, ho deciso di restare nel mondo del marketing. E questo il mio ambiente, ho il mio network e qui a Milano ci si conosce tutti. Lavoro su progetti per le aziende. Guadagno meno, certo, ma non ho spese e non pago più il 50% del mio reddito in tasse. Non ho più l'Audi, giro in motorino o con la Smart che poi è un motorino coperto. Ma quello dell'auto è un problema che hanno soltanto gli uomini". La precarietà, ancorché "di lusso", permette di sperimentare nuove strade. Per esempio quella che Vassellatti chiama del "legal marketing" che, per i non addetti ai lavori, è più o meno la promozione degli uffici legali. In Italia pochi avvocati fanno pubblicità anche perché prima della "lenzuolata" di Bersani era vietato. Ora si può fare "ma convincere gli avvocati, che ti guardano con sospetto e distacco, non è facile". Vassellatti insiste nel dire che la qualità della sua vita è migliorata, ma non esita a rimarcare che non sarebbe così se solo avesse un figlio e una famiglia da mantenere. "La crisi comincia a sentirsi. Le aziende tagliano i budget. Bisogna moltiplicare gli sforzi. Ma posso organizzare il mio lavoro calibrandolo su me stessa". Sì, d'accordo, ma il suo futuro? "Precario, ma a modo mio". E la pensione? "Boh!".
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