La costituzione è la legge suprema, la carta fondamentale e fondante dello Stato di diritto, dello Stato regolato dal diritto.La parola «costituzione» è moderna, non discende dalla constitutio e le constitutiones dei romani, e non si afferma nel suo significato attuale fino alla seconda metà del Settecento. I puritani inglesi, che pur furono i primi estensori di testi che noi diremmo «costituzionali», non li designarono mai così. Furono i costituenti americani, a cominciare dal 1776 in Pennsylvania e poi nel 1787 a Philadelphia per il nuovo Stato federale, ad adottare «costituzione» intesa come suprema legge. Li seguirono i rivoluzionari francesi del 1789. E la dizione si affermò un po’ dovunque, in Europa, nel corso dell’Ottocento. Fece eccezione Carlo Alberto di Savoia, che nel 1848 concesse al Piemonte uno «statuto», così detto perché era «ottriato», e cioè unilateralmente concesso dal sovrano. Ma lo statuto albertino ricalcava la costituzione belga del 1831, ed era una costituzione alla stessa stregua del suo modello.Il punto è, allora, che sin dalla fine del Settecento alla fine della Prima guerra mondiale il significato di costituzione era «garantista»: non designava qualsiasi forma, qualsiasi struttura dello Stato, ma specificamente quella organizzazione del potere che garantiva la «libertà da», la libertà dei cittadini dallo Stato, nei confronti dello Stato. Paine lo disse concisamente nel 1791: «Un governo senza una costituzione è potere senza diritto ». E nella Dichiarazione francese dei diritti del 1789 si legge: «Una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è definitivamente determinata non ha costituzione».Questa accezione garantista di costituzione viene travolta, o comunque respinta, dalla teoria pura del diritto di Kelsen e, più in generale, dal «formalismo giuridico» che si afferma tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Questo formalismo, attentissimo alla forma e alla coerenza del diritto, è però molto, anzi troppo disattento alla sostanza dei problemi. Resta il fatto che tuttora impera nell’insegnamento delle facoltà di giurisprudenza e nella forma mentis della nostra magistratura. E si capisce perché. Al giurista piace, così come piace e conviene a quasi tutte le specializzazioni, chiudersi in un proprio orto inespugnabile. Il che è bene per la sistematica deduttiva del diritto, ma male per il problema del potere politico. [...] Comunque sia, i nostri costituenti del 1948 uscivano dalla esperienza della dittatura fascista, e i cattolici e i comunisti di quegli anni si temevano e non si fidavano gli uni degli altri. Pertanto si impegnarono nella progettazione di uno Stato il più garantista possibile. Forse anche troppo garantista (a scapito della governabilità); ma che ci ha pur sempre garantiti per più di mezzo secolo.Le costituzioni non sono, e nemmeno dovrebbero essere, immodificabili. Sono, ovviamente, figlie del loro tempo. Però è importante che durino, che siano longeve. Infatti sono, per lo più, costituzioni rigide, e cioè sottoposte a speciali procedure di modifica. Lo è — rigida — anche la nostra. Ma mentre la costituzione degli Stati Uniti è stata modificata in piccolo, per dire con emendamenti di singoli articoli che ne lasciano invariata la struttura portante, noi abbiamo cominciato sin dal 1983 a vagheggiare riforme di interi blocchi della Carta originaria. Nessuna di queste riforme a blocchi è mai andata in porto fino al 2001, quando il governo Amato di centrosinistra varòin extremis un grosso pacchetto di riforme di tipo federalista (vedi, nel Titolo V su Regioni, Province e Comuni, specialmente i nuovi articoli 114-120). Questa riforma fu frettolosa, anche perché ispirata da interessi elettorali contingenti, e incompleta, nel senso che rinviava la riforma del bicameralismo paritario alla futura creazione di un Senato che fosse espressione di rappresentanza territoriale.Al momento abbiamo dunque una costituzione incompleta (e anche controversa) nel suo assetto federalista, mentre siamo assurdamente fermi sulle piccole riforme intese a rafforzare la capacità di governo — e così a correggere l’eccesso di parlamentarismo della Carta del ‘48 — attribuendo al capo del governo il diritto di scegliere e revocare i suoi ministri, e assicurando ai governi una maggiore stabilità introducendo l’istituto tedesco della sfiducia costruttiva. Su queste piccole riforme, che non toccano la struttura del sistema parlamentare, quasi tutti i costituzionalisti sono d’accordo. Eppure non si fanno.Berlusconi e Bossi hanno invece perseguito l’intento di disegnare una nuova costituzione — la cosiddetta costituzione di Lorenzago — che cambiava più di cinquanta articoli della costituzione vigente. Ma il progetto di Lorenzago è stato massicciamente respinto dal referendum del giugno 2006. Nonostante questo secco colpo di arresto, agli addetti ai lavori continua a piacere di ripensare la costituzione in grande. Così la questione più discussa oggi è se la prima parte del testo del ‘48 non sia largamente obsoleta e da rifare.Come già dicevo, è importante che le costituzioni durino e che diano «certezze» durevoli. È vero che alcuni articoli, o anche molti articoli, del testo elaborato sessant’anni fa esibiscono principii «datati». Per esempio, l’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro » (che nella formulazione proposta da Togliatti diceva «fondata sui lavoratori»). Ma la importante distinzione tra norme programmatiche (che sono soltanto «indirizzi», norme virtuali e latenti) e norme precettive (le vere norme cogenti) consente di mantenere in vita senza danno norme che sono, appunto, datate. Io lascerei al tempo il compito di rendere desuete le norme programmatiche che sono diventate tali e non me ne preoccuperei più di tanto. Le vere urgenze investono semmai le norme precettive sulla governabilità che ho richiamato poc’anzi.Concludo sottolineando la grande utilità di questo testo, e di un chiaro e sistematico aggiornamento di una costituzione che è già stata abbondantemente modificata e che molti citano ancora nella versione originaria e superata.
Giovanni Sartori - Corriere della Sera, 27 febbraio 2009
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