Scritto da Nando dalla Chiesa
(l'Unità, 3 settembre 2008) - Il primo a salire sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo cappello chiaro in testa e il passo del dominatore. Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il proprio bagaglio a rimorchio. Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi. Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che potessero insinuarsi nella coda con più agio. Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo, che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e pochissimi altri viaggiatori. Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano “presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore, aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto: “Proprio lei che è un democratico”. Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo era stato requisito dal signore in questione. A questo punto protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté “Lei che è un democratico”, stavolta dicendo la parola “democratico” come Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava le dieci unità. “Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il capo comitiva aveva costretto la compagnia.
Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il bagaglio pronto all’arrivo. Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al comandante di intervenire a garantire i diritti dei passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu stabilito.
Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento. Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della fila e della occupazione del proprio posto, che non provi vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi metri dal proprio amico o parente. Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le regole civili.
E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che -essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo- incominciò a tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole, sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente, discutendo animatamente con più di una signora e di un giovane. Qualcuno del personale di bordo disse: “Evabbe’, fate come volete”. Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di bagagli.
Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ ho sempre vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia: ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di solidarietà infranto. L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere “democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno clan.
Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si arrovellò Sylos Labini…) tra sviluppo economico e sviluppo civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica. Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I paesi crescono con le infrastrutture materiali. Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la differenza.
(l'Unità, 3 settembre 2008) - Il primo a salire sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo cappello chiaro in testa e il passo del dominatore. Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il proprio bagaglio a rimorchio. Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi. Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che potessero insinuarsi nella coda con più agio. Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo, che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e pochissimi altri viaggiatori. Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano “presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore, aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto: “Proprio lei che è un democratico”. Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo era stato requisito dal signore in questione. A questo punto protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté “Lei che è un democratico”, stavolta dicendo la parola “democratico” come Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava le dieci unità. “Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il capo comitiva aveva costretto la compagnia.
Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il bagaglio pronto all’arrivo. Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al comandante di intervenire a garantire i diritti dei passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu stabilito.
Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento. Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della fila e della occupazione del proprio posto, che non provi vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi metri dal proprio amico o parente. Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le regole civili.
E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che -essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo- incominciò a tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole, sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente, discutendo animatamente con più di una signora e di un giovane. Qualcuno del personale di bordo disse: “Evabbe’, fate come volete”. Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di bagagli.
Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ ho sempre vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia: ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di solidarietà infranto. L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere “democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno clan.
Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si arrovellò Sylos Labini…) tra sviluppo economico e sviluppo civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica. Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I paesi crescono con le infrastrutture materiali. Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la differenza.
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