Radiografia di un fenomeno. Anche culturale.
Dicono, sbagliando, che faccia ingrassare. L' hanno marchiata a fuoco da secoli - con un po' di snobismo - come un piatto povero, salvo accusarla oggi (ironia della sorte) di costare troppo. Passano gli anni, cambiano i censori, ma il destino della pasta italiana resta sempre lo stesso: difendere con le unghie e con i denti il suo posto a capotavola nella dieta tricolore. A inizio '900 a metterla sul banco degli imputati chiedendone l' abolizione era stato Filippo Tommaso Marinetti che alla presentazione del "Manifesto della cucina futurista" - in pieno raptus artistico - aveva crivellato di colpi di rivoltella un vassoio di spaghetti, «l' assurda religione della gastronomia nazionale». Oggi è il turno delle Cassandre anglosassoni. "Arrivederci penne", ha sentenziato lapidario il "Wall Street Journal", celebrandone il De profundis: «I prezzi del frumento sono saliti del 170%, le coltivazioni per i biocarburanti rubano ettari ai cereali da tavola» - è la tesi americana - e il Belpaese, dicono loro, ha già iniziato a snobbare la pastasciutta per affondare forchette e canini in quei deliziosi (si fa per dire) manicaretti fast-food a stelle e strisce che hanno regalato agli Usa tutti i record di obesità. Ma è davvero così? Non proprio. La pastasciutta tricolore è un po' come l' Italia. Quando la dai per morta, arriva il colpo di coda. Risorge. Più forte («e più buona», garantiscono all' Unione Pastai) di prima. Parlano i numeri, il settore non è in crisi. Nel 2007, malgrado il boom dei costi e il crollo dei consumi, i 148 pastifici di casa nostra ne hanno prodotta per 3,2 milioni di tonnellate, di cui il 53% impacchettata e spedita all' estero. A voler cercare il pelo nell' uovo, nel Belpaese - con i prezzi saliti del 29% in 12 mesi - le vendite sono calate dell' 1,6%. «Ma è stato un fenomeno passeggero - dice Filippo Antonio De Cecco, storico presidente e ad dell' omonimo gruppo - . Già nel 2008 le cose vanno meglio. Gli americani ce l' hanno con noi perché la dieta mediterranea ruba spazio alla loro carne... ». Certo gli italiani hanno cambiato abitudini, mangiano di più fuori casa, soprattutto a pranzo, il pasto per tradizione dedicato alla pasta. Ma né il nuovo quadro sociologico né gli aumenti («capirà, 29 centesimi in più al chilo sono 8 euro in più all' anno per italiano», calcola De Cecco) sono riusciti a intaccare il nostro incontrastato primato mondiale: ogni italiano mangia 28 chili di pasta l' anno, doppiando i più vicini concorrenti, i venezuelani, fermi a una porzione da 13 chili. Con gli americani - guarda un po' - nella parte alta della graduatoria a quota nove chili. Morale: il business tricolore di rigatoni, conchiglie e penne varie vale oggi oltre 3,5 miliardi di euro. Fatti solo, e questo è il bello, di grano e di acqua. Il segreto dell' immortalità della pasta, in fondo, è proprio questo: la sua ricetta è rimasta sempre la stessa. Da quella arrivata con Marco Polo dalla Cina, al piatto di spaghetti fumanti divorati dall' Alberto Sordi («m' hai provocato... io me te magno») di "Un americano a Roma", fino alle confezioni accatastate oggi sugli scaffali dei supermercati. I vari Barilla, Voiello e De Cecco lavorano come i fortunati abitanti del paese di Bengodi del Decamerone dove «le persone niuna altra cosa facevano che fare maccheroni». Impastando semola e acqua - allora si faceva con i piedi - modellando i maccheroni negli stampi per poi farli essiccare. A cambiare oggi sono i particolari. Le macchine hanno sostituito i piedi. I supermercati hanno soppiantato i negozi sotto casa (Urbano VIII fu costretto nel 1641 a emanare una bolla papale per imporre una distanza minima di 24 metri alle botteghe di "vermicellai"). I grani vengono scelti da sommelier dei cereali che selezionano i chicchi (il 60% arrivano dai campi italiani, il 40% dall' estero, Canada, Francia, Australia e Usa) e poi li miscelano in cocktail sempre più raffinati. Lo si faceva "a fiuto e naso" 500 anni fa nei mercati di materie prime di Napoli e Genova. Lo si fa più scientificamente oggi. «Noi studiamo in campo per un periodo da 4 a 10 anni le qualità migliori, le selezioniamo curando qualità e quantità delle proteine e poi ne facciamo dei "marchi" esclusivi veri e propri», spiega Antonio Nespoli, direttore ricerca e sviluppo Barilla. Ultimi nati i chicchi "Svevo", gioielli del gruppo parmigiano che si stanno trebbiando in questi giorni tra Puglia ed Emilia. O il pregiatissimo "881" (sembra il marchio di una Harley Davidson) coltivato dagli americani nella Imperial Valley californiana, «il Brunello di Montalcino dei grani», garantisce De Cecco. Fatti i debiti distinguo, però, il processo di produzione è rimasto uguale a quello di mille anni fa. Si impastano acqua (in una percentuale del 30%) e semola. L' amido e le proteine si legano al liquido finché si ottiene un impasto giallo, morbido e filante che la gramolatura (in fase industriale è il passaggio in grandi coni d' acciaio) porta alla giusta consistenza. A plasmare il tutto nel prodotto finale ci pensano le trafile. Stampi, in sostanza, dove da una parte entra l' amalgama torchiato e dall' altro spuntano come per magia farfalle, conchiglie, penne, stelline, spaghetti, bucatini e maccheroni
vari. Con la storica trafila in bronzo, quella dei vecchi laboratori artigianali, si ottiene una pasta dalla superficie rugosa, capace di trattenere meglio il sugo - come pretendono i grandi chef - ma più difficile da portare al punto giusto di cottura. Troppo complicato per chi a casa non può stare con il cronometro davanti ai fornelli. E così i pastifici industriali lavorano con trafile in teflon: durano di più e sfornano prodotti più impermeabili, capaci di resistere più all' ebollizione senza scuocere. La pasta, a questo punto, è a un passo dalla nostra tavola. L' ultimo passaggio è quello dell' essiccazione, necessaria per ridurre dal 30% al 12,5% la percentuale d' acqua. Una volta si faceva all' aperto, su rastrelliere in legno. Oggi è una scienza precisa, dove si dosano durata e calore. I puristi scelgono temperature più basse (fino a 50 gradi) - che consentono di salvaguardare al meglio le caratteristiche organolettiche - e tempi più lunghi (anche tre giorni). L' industria ha più fretta. E lavora fino a 100 gradi chiudendo il ciclo in 5 ore, ottenendo così prodotti migliori anche con qualità di grani un po' meno pregiate. Tutto il processo è naturale. Niente sali né conservanti, come prevede quella dieta mediterranea celebrata dai dietologi di tutto il mondo. «La pasta è costituita per l' 80% di quei carboidrati quelli che dovrebbero soddisfare il 55% del nostro fabbisogno energetico giornaliero - spiega Antonio Pinto del dipartimento di Scienza dell' Alimentazione della Sapienza di Roma - . Le sue virtù principali? I suoi sono carboidrati "buoni",
non derivati da grassi animali, ha solo un 1,4% di grassi e un contenuto glicemico bassissimo». L' opposto insomma di quella gastronomia a stelle e strisce verso cui ci vede lanciati il "Wall Street Journal". La dose "consigliata" è di 80 grammi a porzione, pari a 285 calorie («si può mangiare due volte al giorno sacrificando il pane», assicura Pinto) e anche se tra gli ingredienti mancano alcuni amminoacidi essenziali come la lisina e trionina, basta lavorare di fantasia con i sughi («ad esempio con parmigiano e ragù») per arrivare a un' alimentazione perfettamente bilanciata. Gli spaghetti, con il 30% circa del mercato, restano la forma preferita. Ma le abitudini e i gusti stanno cambiando e obbligano i big a guardare in nuove direzioni. I numeri raccontano già un pezzo di questa metamorfosi. C' è il boom delle paste regionali (trofie, paccheri e cavatelli), è esplosa la pasta integrale (+27% l' anno scorso). «La gente oggi legge di più le etichette, guarda con la lente d' ingrandimento ai valori nutrizionali», racconta Nespoli. E l' industria si adegua. «Anche nel tempio sacro della pasta ormai è di casa un pizzico di sperimentazione», continua il guru di casa Barilla. Tradotto in progetti concreti significa che si sta cercando di trasformarla - senza snaturarla - in un piatto completo. Qualcosa del genere è già arrivato sugli scaffali. «In America abbiamo lanciato la Pasta Plus - conclude Nespoli - . Pasta normale, ottima, cui però abbiamo aggiunto lenticchie e ceci, Omega3 da semi di lino, fibra d' avena. È andata bene e grazie al suo successo abbiamo guadagnato una quota del 2% del mercato Usa». Le Cassandre a stelle e strisce dovranno farsene una ragione. «La pasta è più buona, più sana e, cosa che in crisi economica non guasta, molto più economica dei loro piatti ad alto rischio colesterolo - conclude De Cecco - . I consumi stanno crescendo anche lì. Dovranno rassegnarsi a sopportarci ancora a lungo».
vari. Con la storica trafila in bronzo, quella dei vecchi laboratori artigianali, si ottiene una pasta dalla superficie rugosa, capace di trattenere meglio il sugo - come pretendono i grandi chef - ma più difficile da portare al punto giusto di cottura. Troppo complicato per chi a casa non può stare con il cronometro davanti ai fornelli. E così i pastifici industriali lavorano con trafile in teflon: durano di più e sfornano prodotti più impermeabili, capaci di resistere più all' ebollizione senza scuocere. La pasta, a questo punto, è a un passo dalla nostra tavola. L' ultimo passaggio è quello dell' essiccazione, necessaria per ridurre dal 30% al 12,5% la percentuale d' acqua. Una volta si faceva all' aperto, su rastrelliere in legno. Oggi è una scienza precisa, dove si dosano durata e calore. I puristi scelgono temperature più basse (fino a 50 gradi) - che consentono di salvaguardare al meglio le caratteristiche organolettiche - e tempi più lunghi (anche tre giorni). L' industria ha più fretta. E lavora fino a 100 gradi chiudendo il ciclo in 5 ore, ottenendo così prodotti migliori anche con qualità di grani un po' meno pregiate. Tutto il processo è naturale. Niente sali né conservanti, come prevede quella dieta mediterranea celebrata dai dietologi di tutto il mondo. «La pasta è costituita per l' 80% di quei carboidrati quelli che dovrebbero soddisfare il 55% del nostro fabbisogno energetico giornaliero - spiega Antonio Pinto del dipartimento di Scienza dell' Alimentazione della Sapienza di Roma - . Le sue virtù principali? I suoi sono carboidrati "buoni",
non derivati da grassi animali, ha solo un 1,4% di grassi e un contenuto glicemico bassissimo». L' opposto insomma di quella gastronomia a stelle e strisce verso cui ci vede lanciati il "Wall Street Journal". La dose "consigliata" è di 80 grammi a porzione, pari a 285 calorie («si può mangiare due volte al giorno sacrificando il pane», assicura Pinto) e anche se tra gli ingredienti mancano alcuni amminoacidi essenziali come la lisina e trionina, basta lavorare di fantasia con i sughi («ad esempio con parmigiano e ragù») per arrivare a un' alimentazione perfettamente bilanciata. Gli spaghetti, con il 30% circa del mercato, restano la forma preferita. Ma le abitudini e i gusti stanno cambiando e obbligano i big a guardare in nuove direzioni. I numeri raccontano già un pezzo di questa metamorfosi. C' è il boom delle paste regionali (trofie, paccheri e cavatelli), è esplosa la pasta integrale (+27% l' anno scorso). «La gente oggi legge di più le etichette, guarda con la lente d' ingrandimento ai valori nutrizionali», racconta Nespoli. E l' industria si adegua. «Anche nel tempio sacro della pasta ormai è di casa un pizzico di sperimentazione», continua il guru di casa Barilla. Tradotto in progetti concreti significa che si sta cercando di trasformarla - senza snaturarla - in un piatto completo. Qualcosa del genere è già arrivato sugli scaffali. «In America abbiamo lanciato la Pasta Plus - conclude Nespoli - . Pasta normale, ottima, cui però abbiamo aggiunto lenticchie e ceci, Omega3 da semi di lino, fibra d' avena. È andata bene e grazie al suo successo abbiamo guadagnato una quota del 2% del mercato Usa». Le Cassandre a stelle e strisce dovranno farsene una ragione. «La pasta è più buona, più sana e, cosa che in crisi economica non guasta, molto più economica dei loro piatti ad alto rischio colesterolo - conclude De Cecco - . I consumi stanno crescendo anche lì. Dovranno rassegnarsi a sopportarci ancora a lungo».
Repubblica — 30 giugno 2008 - Ettore Livini
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