Spesso mi capita di discutere, tra il serio e il faceto, sull’identità “etnica” imolese e, visto il mio interesse, della sua cucina. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci e precisiamo che la nostra cucina è una cucina decisamente romagnola. Per ragioni politiche e amministrative siamo legati alla provincia di Bologna, ma per aspetti, carattere, storia, tradizioni, Imola e il suo territorio riflettono personalità, temperamento sanguigno e deciso, tipicamente romagnoli, anche a tavola. Tutto ne è testimonianza: il paesaggio, le geometrie della sua terra, la lingua, le tradizioni che sembrano condurre pensiero e sensi alle gioie del mangiare. Parlare della nostra arte culinaria tradizionale significa parlare soprattutto di cucina contadina essendo, quella della Romagna, una popolazione prevalentemente rurale, eredità degli Etruschi prosperata ulteriormente a questa vocazione quando il territorio divenne provincia romana.
Ripercorrendo velocemente il nostro passato possiamo annotare come un tempo, per ovvi motivi legati a momenti e lavori differenti, non era abitudine far colazione appena alzati, il latte di rado finiva al mattino nelle tazze di vecchi e bambini, perché si utilizzava per fare il formaggio. Per i più piccoli rimaneva “lo scot”, lo scarto del siero. Gli adulti, diversamente, avevano bisogno di energie per affrontare il duro lavoro dei campi e solitamente, dopo alcune ore di lavoro già svolte, ci si fermava per la “colazione” mangiando legumi o erbe di stagione (fagioli, cavoli, patate, cardi, finocchi, ...) con piadina o polenta; varianti erano date dalla presenza di cotiche di maiale, uova o frittate tagliate a cubetti o polpette di verdura. Se i pasti erano solo due la colazione era anche pranzo e quindi si spostava dalle otto, circa, alle dieci per poter cenare verso le cinque del pomeriggio (ricordo ancora da bambino molte famiglie che cenavano alle 17.30-18.00 al massimo). Altri cibi caratteristici erano il contorno di zampetti, orecchie e coda di maiale, che col battuto si trasformavano in ragù; la farina di granturco - sola o miscelata a quella di frumento - serviva per preparare un po' di tutto, oltre naturalmente alla polenta, e ad esempio veniva cotta con sale e acqua, condita col profumo dell'aringa e appesa alla trave sopra il tavolo in modo che, a turno, gli adulti vi strisciasse la propria fetta per non consumarla troppo in fretta.
Le minestre fatte in casa erano, e sono ancora, il piatto forte del desco, spesso "matte" cioè di sfoglia senza uova, insaporite più dalle verdure che dal condimento (per necessità, non per necessità dietetiche). Altro uso era abbrustolire formaggio e pancetta schiacciandoli tra due fette di pane per non perdere neanche una goccia di grasso. Nei giorni di festa poi la cucina si faceva più ricca: a pranzo e a cena non mancavano (quasi) mai minestre con brodo di gallina o pastasciutte ben condite, arrosti, stufati e magari una fetta di ciambella da inzuppare in un bicchiere di vino.
Nei confronti del pane poi c’era un profondo senso di rispetto, io stesso ho questo atteggiamento frutto dell’educazione dei nonni e dei genitori di origini contadine, per cui non andava tenuto a pancia in giù sulla tavola, non doveva essere violato col coltello ma spezzato con le mani e non si dovevano lasciare briciole. Era un elemento base per la sopravvivenza. Anche secco e raffermo era consumato in diversi modi, si ammorbidiva con acqua e si condiva con olio e sale, si cospargeva di grasso e si abbrustoliva alla fiamma. Come il pane grande importanza naturalmente aveva anche la piadina che, nella sua versione più umile, era fatta di sola farina e acqua salata intiepidita (l’uso del bicarbonato per alleggerire l'impasto senza giungere alla completa lievitazione risale ai primi del Novecento). Se la pasta è la regina, il vero re della cucina romagnola era, e rimane, il maiale. Ingrassato senza spese con le brodaglie di scarto e le ghiande, il maiale portava, con la sua morte, la ricchezza della dispensa. Si utilizzava tutto. Subito veniva fatto "e migliaz",un dolce ricco, e le altre “cose” fresche venivano subito fritte in padella con abbondante cipolla e pancetta a lardelli, poi fegato, stomaco e le interiora per la preparazione degli insaccati, il grasso per lo strutto e infine i ciccioli (appena fatti caldi e croccanti, una vera delizia vi assicuro). Le carni bovine erano meno frequenti sulla tavola (le “bestie” si usavano per il lavoro o per venderle al mercato) e ancora oggi è visibile questa scarsità di offerta nei nostri piatti sia in casa che al ristorante. Dei formaggi, ne parlerò in un prossimo articolo in modo più approfondito, vale la pena ricordare quelli freschi, squacquerone e raveggiolo, il primo come accompagnamento alla piada, il secondo per dare più fragranza ai cappelletti e alla pasta ripiena. Esiste comunque una bella tradizione anche in quelli più stagionati.Già da questa breve esposizione chiunque può notare come tutta una serie di alimenti e di piatti che ancora oggi ritroviamo in casa o nella ristorazione del territorio, seppur a volte modificati e “alleggeriti” per questioni di mutate necessità anche caloriche, abbiano un forte legame alla cucina di antica memoria nata dietro l'incalzare delle necessità quotidiane e, soprattutto, sulla base di quanto si aveva a disposizione. Una gastronomia che si declina decisamente su quella delle tradizioni di una terra chiamata Romagna. Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 20 luglio 2008
Ripercorrendo velocemente il nostro passato possiamo annotare come un tempo, per ovvi motivi legati a momenti e lavori differenti, non era abitudine far colazione appena alzati, il latte di rado finiva al mattino nelle tazze di vecchi e bambini, perché si utilizzava per fare il formaggio. Per i più piccoli rimaneva “lo scot”, lo scarto del siero. Gli adulti, diversamente, avevano bisogno di energie per affrontare il duro lavoro dei campi e solitamente, dopo alcune ore di lavoro già svolte, ci si fermava per la “colazione” mangiando legumi o erbe di stagione (fagioli, cavoli, patate, cardi, finocchi, ...) con piadina o polenta; varianti erano date dalla presenza di cotiche di maiale, uova o frittate tagliate a cubetti o polpette di verdura. Se i pasti erano solo due la colazione era anche pranzo e quindi si spostava dalle otto, circa, alle dieci per poter cenare verso le cinque del pomeriggio (ricordo ancora da bambino molte famiglie che cenavano alle 17.30-18.00 al massimo). Altri cibi caratteristici erano il contorno di zampetti, orecchie e coda di maiale, che col battuto si trasformavano in ragù; la farina di granturco - sola o miscelata a quella di frumento - serviva per preparare un po' di tutto, oltre naturalmente alla polenta, e ad esempio veniva cotta con sale e acqua, condita col profumo dell'aringa e appesa alla trave sopra il tavolo in modo che, a turno, gli adulti vi strisciasse la propria fetta per non consumarla troppo in fretta.
Le minestre fatte in casa erano, e sono ancora, il piatto forte del desco, spesso "matte" cioè di sfoglia senza uova, insaporite più dalle verdure che dal condimento (per necessità, non per necessità dietetiche). Altro uso era abbrustolire formaggio e pancetta schiacciandoli tra due fette di pane per non perdere neanche una goccia di grasso. Nei giorni di festa poi la cucina si faceva più ricca: a pranzo e a cena non mancavano (quasi) mai minestre con brodo di gallina o pastasciutte ben condite, arrosti, stufati e magari una fetta di ciambella da inzuppare in un bicchiere di vino.
Nei confronti del pane poi c’era un profondo senso di rispetto, io stesso ho questo atteggiamento frutto dell’educazione dei nonni e dei genitori di origini contadine, per cui non andava tenuto a pancia in giù sulla tavola, non doveva essere violato col coltello ma spezzato con le mani e non si dovevano lasciare briciole. Era un elemento base per la sopravvivenza. Anche secco e raffermo era consumato in diversi modi, si ammorbidiva con acqua e si condiva con olio e sale, si cospargeva di grasso e si abbrustoliva alla fiamma. Come il pane grande importanza naturalmente aveva anche la piadina che, nella sua versione più umile, era fatta di sola farina e acqua salata intiepidita (l’uso del bicarbonato per alleggerire l'impasto senza giungere alla completa lievitazione risale ai primi del Novecento). Se la pasta è la regina, il vero re della cucina romagnola era, e rimane, il maiale. Ingrassato senza spese con le brodaglie di scarto e le ghiande, il maiale portava, con la sua morte, la ricchezza della dispensa. Si utilizzava tutto. Subito veniva fatto "e migliaz",un dolce ricco, e le altre “cose” fresche venivano subito fritte in padella con abbondante cipolla e pancetta a lardelli, poi fegato, stomaco e le interiora per la preparazione degli insaccati, il grasso per lo strutto e infine i ciccioli (appena fatti caldi e croccanti, una vera delizia vi assicuro). Le carni bovine erano meno frequenti sulla tavola (le “bestie” si usavano per il lavoro o per venderle al mercato) e ancora oggi è visibile questa scarsità di offerta nei nostri piatti sia in casa che al ristorante. Dei formaggi, ne parlerò in un prossimo articolo in modo più approfondito, vale la pena ricordare quelli freschi, squacquerone e raveggiolo, il primo come accompagnamento alla piada, il secondo per dare più fragranza ai cappelletti e alla pasta ripiena. Esiste comunque una bella tradizione anche in quelli più stagionati.Già da questa breve esposizione chiunque può notare come tutta una serie di alimenti e di piatti che ancora oggi ritroviamo in casa o nella ristorazione del territorio, seppur a volte modificati e “alleggeriti” per questioni di mutate necessità anche caloriche, abbiano un forte legame alla cucina di antica memoria nata dietro l'incalzare delle necessità quotidiane e, soprattutto, sulla base di quanto si aveva a disposizione. Una gastronomia che si declina decisamente su quella delle tradizioni di una terra chiamata Romagna. Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 20 luglio 2008
Nessun commento:
Posta un commento