Aumentano i prezzi, calano i consumi e così i prodotti ortofrutticoli restano nei campi, destinati al macero. Il mercato di frutta e verdura si sta avvitando su se stesso con il paradosso di creare un'agricoltura che non raccoglie più. L'allarme è della Cia, la Confederazione italiana agricoltori, che ha fornito dati preoccupanti: la spesa costa ai consumatori oltre cento euro in più al mese rispetto a pochi anni fa, la produzione è calata, i costi sono aumentati di oltre il 6% per gli agricoltori italiani che stanno diventando i più poveri d'Europa. Ciliege, albicocche, carote, fave, fiori. Tonnellate di produzione di primissima scelta lasciate a marcire. E senza contare le produzioni contingentate imposte dalla Ue (come il discusso sistema delle quote latte). Dinamiche di mercato che ogni anno fanno sì che 1,5 milioni di tonnellate di prodotti alimentari vadano al macero, 4 miliardi di euro in fumo. A farne le spese per primi sono gli agricoltori, dice la Cia. In certi periodi dell'anno per alcuni prodotti "non c'è prezzo", cioè l'offerta è talmente bassa che non copre i costi di raccolta. E' il caso per esempio delle ciliege di Forlì, prodotto di primissima scelta ma che arriva sul mercato tutto assieme. Così gli agricoltori sono costretti a venderle per meno di 90 centesimi al chilo per la trasformazione in marmellate, quando va bene, e a buttarle quando va male. Almeno costeranno poco sui banchi dei mercati, si potrebbe pensare. E invece no perché per i consumatori costano fino a 5 euro al chilo. Com'è possibile? Sono i danni di una filiera che deve scontare speculazioni internazionali, rincari delle materie prime e un'infinità di passaggi. E così il destino delle ciliege di Forlì è lo stesso delle carote e delle fave del Lazio (le prime vengono "rinterrate", le seconde piacciono - chissà perché - solo il primo maggio) e dei fiori di Pescia. Il 2005 e il 2006 sono stati gli anni peggiori per l'agricoltura che non raccoglie, spiegano alla Cia, con tonnellate di prodotti finiti al macero (finocchi in Abruzzo, meloni in Sicilia, uva in Puglia).
Questa maledetta filiera fa male a tutti. I numeri presentati nei giorni scorsi dalla Cia nella seconda Conferenza economica sono espliciti. Dal 2000 al 2007 la spesa alimentare per gli italiani è rincarata del 28% (da 379 a 485 euro al mese) nonostante i consumi siano diminuiti del 12,4%. Il calo negli acquisti ha coinvolto tutti i settori: pane (-10,9%), carne (-14,5%), frutta e verdura (-7,7%). Ma i rincari ci sono anche per gli agricoltori che in otto anni hanno avuto i costi triplicati e un calo dei redditi del 18,2%, il più alto della Ue. Solo nel 2007 i costi produttivi (mangimi, sementi, antiparassitari, gasolio che incide per il 42% nelle aziende) sono saliti del 6,1% e i redditi scesi del 2%. Sempre colpa della filiera che allunga la catena e comprime i profitti: l'incidenza dell'agricoltura sul prezzo finale è inferiore a un terzo, il resto è da addebitare a passaggi che provocano aumenti fino a venti volte. Va bene solo al pollame: il consumo di carne bianca è salito nel 2007, dopo la psicosi da aviaria, del 5,7% con un fatturato di 5,3 miliardi.
di FRANCESCO MIMMO pubblicato su La repubblica il 25 giugno 2008
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