Per motivi biografici e ideologici è quasi impossibile che il finanziere George Soros e il presidente della Russia la pensino allo stesso modo. Eppure Medvedev denuncia il «ruolo dell’America che spinge l’economia globale verso la più grave crisi dal 1929». E Soros in un’audizione al Senato Usa denuncia "i segnali di una nuova bolla speculativa".
La convergenza è notevole. Tutti e due hanno in mente la stessa cosa: l’inquietante enigma del caro-petrolio, che venerdì ha sfiorato i 140 dollari il barile e sembra deciso a realizzare la sospetta "profezia" della banca Goldman Sachs (200 dollari a barile). Si fa presto a dare la colpa ai soliti noti, Cina e India. Certo le superpotenze asiatiche, con centinaia di milioni di nuovi consumatori che accedono al benessere, sono la causa di fondo di un trend di rialzo secolare di tutte le materie prime. Inoltre le due locomotive cinese e indiana trainano lo sviluppo di molti altri nuovi protagonisti della globalizzazione, dalla Russia al Brasile. Ciascuno di questi diventa un consumatore delle stesse risorse naturali che vende all’estero: è sintomatica l’uscita dall’Opec dell’Indonesia, un ex-esportatore di greggio che oggi deve comprarlo sui mercati mondiali. Ma su questi cambiamenti storici si è innestata una marea di flussi finanziari che sono diventati a loro volta "il" problema. Quando in sole 48 ore di scambi al New York Mercantile Exchange (Nymex) i futures schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra giovedì e venerdì scorso, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Lo sviluppo economico asiatico, che comporta fra l’altro il boom della motorizzazione privata in paesi dove vivono 3,5 miliardi di persone, può spiegare l’aumento del 35% all’anno del petrolio negli ultimi cinque anni. Ma negli ultimi dodici mesi questo rincaro ha cominciato a puntare verso il cielo, raddoppiando di colpo. E il singolo aumento dei futures nella sola giornata di venerdì non si era mai verificato in quelle proporzioni da 25 anni. Ruchir Sharma, capo del dipartimento dei mercati emergenti alla Morgan Stanley, osserva che "flussi di capitali che si sono riversati sugli hedge fund che speculano sul petrolio, in soli tre mesi hanno superato tutto i1 2007, già un anno record". Qui la domanda e l’offerta della materia prima reale, il petrolio, non c’entrano più. Se non come un pretesto: uno scenario di fondo che viene utilizzato per orchestrarvi sopra una nuova ondata di scommesse finanziarie. Al Nymex ormai i contratti di futures sul petrolio movimentano un miliardo di barili al giorno, tutti virtuali; mentre la produzione del greggio vero è di soli 85 milioni di barili al giorno. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. E’ la ragione per cui in molti condividono l’analisi dì Soros: il casinò dove si puntano le giocate sui futures del petrolio è il luogo dove si è creata la nuova bolla speculativa.
La convergenza è notevole. Tutti e due hanno in mente la stessa cosa: l’inquietante enigma del caro-petrolio, che venerdì ha sfiorato i 140 dollari il barile e sembra deciso a realizzare la sospetta "profezia" della banca Goldman Sachs (200 dollari a barile). Si fa presto a dare la colpa ai soliti noti, Cina e India. Certo le superpotenze asiatiche, con centinaia di milioni di nuovi consumatori che accedono al benessere, sono la causa di fondo di un trend di rialzo secolare di tutte le materie prime. Inoltre le due locomotive cinese e indiana trainano lo sviluppo di molti altri nuovi protagonisti della globalizzazione, dalla Russia al Brasile. Ciascuno di questi diventa un consumatore delle stesse risorse naturali che vende all’estero: è sintomatica l’uscita dall’Opec dell’Indonesia, un ex-esportatore di greggio che oggi deve comprarlo sui mercati mondiali. Ma su questi cambiamenti storici si è innestata una marea di flussi finanziari che sono diventati a loro volta "il" problema. Quando in sole 48 ore di scambi al New York Mercantile Exchange (Nymex) i futures schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra giovedì e venerdì scorso, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Lo sviluppo economico asiatico, che comporta fra l’altro il boom della motorizzazione privata in paesi dove vivono 3,5 miliardi di persone, può spiegare l’aumento del 35% all’anno del petrolio negli ultimi cinque anni. Ma negli ultimi dodici mesi questo rincaro ha cominciato a puntare verso il cielo, raddoppiando di colpo. E il singolo aumento dei futures nella sola giornata di venerdì non si era mai verificato in quelle proporzioni da 25 anni. Ruchir Sharma, capo del dipartimento dei mercati emergenti alla Morgan Stanley, osserva che "flussi di capitali che si sono riversati sugli hedge fund che speculano sul petrolio, in soli tre mesi hanno superato tutto i1 2007, già un anno record". Qui la domanda e l’offerta della materia prima reale, il petrolio, non c’entrano più. Se non come un pretesto: uno scenario di fondo che viene utilizzato per orchestrarvi sopra una nuova ondata di scommesse finanziarie. Al Nymex ormai i contratti di futures sul petrolio movimentano un miliardo di barili al giorno, tutti virtuali; mentre la produzione del greggio vero è di soli 85 milioni di barili al giorno. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. E’ la ragione per cui in molti condividono l’analisi dì Soros: il casinò dove si puntano le giocate sui futures del petrolio è il luogo dove si è creata la nuova bolla speculativa.
Le caratteristiche ci sono tutte. La curva di incremento esponenziale dei prezzi è identica a quella disegnata dal Nasdaq al culmine dell’euforia sulla New Economy nel 1999, prima di crollare nel marzo 2000. A quell’epoca le Borse erano dominate dai colossi di Internet proprio come oggi sono dominate dalle compagnie petrolifere, nuove campionesse della capitalizzazione. Ai tempi della bolla-Nasdaq si erano distinte alcune banche come Merrill Lynch e Credit Suisse First Boston, i cui analisti suggerivano "comprare comprare" alla clientela anche quando le quotazioni avevano ormai superato la stratosfera.
Oggi al centro della febbre dei futures petroliferi c’è la Goldman Sachs, il cui analista Arjun Murti ha lanciato la celebre previsione sul greggio a 200 dollari il barile. Una profezia che sì autoavvera perché, guarda caso, è proprio Goldman Sachs il più importante operatore sui futures del petrolio. In passato altre manipolazioni clamorose dei mercati delle materie prime - i fratelli Hunt sull’argento negli anni 70, Raul Gardini sulla soya a Chicago nell’89 - furono smascherate e neutralizzate dall’intervento delle autorità. Ma questa volta I’impazzimento dei futures petroliferi avviene nel laissez faire. Nessuno interviene a controllare che dietro le transazioni virtuali sui futures possano essere onorati gli scambi di merce reale. Non si applicano neppure quelle regole sul pagamento di margini di garanzia, che sono sempre servite a "tassare" la speculazione pura per distinguerla dalle normali operazioni di copertura del rischio. La denuncia di Soros sulla bolla speculativa davanti al Senato di Washington non ha avuto conseguenze.
E’ inevitabile un sospetto: chi dovrebbe intervenire è paralizzato dai conflitti d’interesse. Il primo imputato è il segretario americano al Tesoro, Henry Paulson, che prima di assumere l’incarico nell’Amministrazione Bush ha passato tutta la sua carriera professionale alla Goldman Sachs fino a diventarne presidente e amministratore delegato.
Forse è ingeneroso ricordare che, quand’anche Paulson passasse i prossimi cent’anni al governo (per fortuna non accadrà), i suoi stipendi cumulati non raggiungerebbero il valore delle stock options che ha incassato alla Goldman Sachs. Al di là degli aspetti personali Paulson è stato il regista del salvataggio delle banche d’affari di Wall Street (vedi Bear Stearns) che stavano per affondare sotto il peso della crisi dei mutui subprime. Con che coraggio potrebbe punzecchiare la nuova bolla dei futures petroliferi, su cui le gloriose istituzioni di Wall Street stanno tentando di rifarsi i bilanci? Dietro di lui, gli interessi personali della famiglia Bush e del vicepresidente Dìck Cheney nell’industria petrolifera non incoraggiano a smontare la macchina speculativa che ha moltiplicato le quotazioni azionarie di tutto il settore. Tanto più che dietro Wall Street, tutto il mondo del risparmio americano si è accodato: i fondi pensione hanno investito 40 miliardi di dollari nella speculazione sulle materie prime, ansiosi anche loro di recuperare almeno una parte delle perdite subite sui subprime. E in questa nuova febbre speculativa un ruolo-chiave spetta al banchiere centrale Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Dopo aver dimostrato ai big di Wall Street che per quanto sbaglino non falliranno mai - a salvarli ci penserà lui coi soldi del contribuente americano - Bernanke abbassando i tassi d’interesse ai minimi storici ha continuato la politica del denaro facile che è il carburante primario di tutte le bolle. Il calo dei tassi a sua volta indebolisce il dollaro; costringe i paesi dell’Opec a cercare compensazioni nei rialzi del greggio (quotato in dollari); e incoraggia la finanza a puntare sulle materie prime come beni-rifugio contro l’inflazione mondiale. Un perfetto circolo vizioso. Che in qualsiasi momento può invertirsi e generare una contro-spirale altrettanto rovinosa, con effetti di panico sui mercati finanziari, la liquidità del credito, i risparmi delle famiglie. Si capisce perché per una volta Medvedev e Soros vanno d’accordo. L’epicentro di questa crisi è l’America, è la sua finanza impazzita che genera un altro contagio globale. Cina e India in questo caso sono solo lo scenario di fondo: è vero che l’aumento dei consumi petroliferi cinesi sale così velocemente da superare la riduzione dei consumi americani; ma per ora gli Stati Uniti continuano ad assorbire quasi il 25% del greggio mondiale contro il 9% della Cina.
Le conseguenze di questa iperinflazione petrolifera sull’economia reale rischiano di diventare sempre più drammatiche nei prossimi mesi. La Cina e l’India, costrette ad abbandonare i "prezzi politici" dei carburanti, non soltanto si espongono al malcontento dei consumatori e alle tensioni sociali, ma possono rallentare la loro crescita che è per il resto del mondo l’unica speranza di salvezza dalla recessione. In Europa l’ultima locomotiva - a mezzo servizio – che ci resta, e cioè la Germania, dovrà sacrificare una parte dei suoi consumi per far fronte al rialzo del 66% della benzina alla pompa. Questo significherà anche minor domanda di moda o mobili o elettrodomestici made in Italy sui nostri principali mercati di sbocco.
C’è almeno un effetto collaterale positivo, che può derivare dalla bolla finanziaria sul petrolio? I mercati, a modo loro, svolgono una funzione di supplenza. L’economista americano Kenneth Rogoff, ex direttore generale dei Fondo monetario internazionale, lo ha spiegato in questi termini sul Sole24 Ore: chi sospinge esageratamente al rialzo nel breve termine i prezzi del petrolio, "sta facendo molto di più per la difesa dell’ambiente di quanto non facciano i politici occidentali che cercano di prolungare l’epoca del consumismo occidentale eco-insostenibile".
Le conseguenze di questa iperinflazione petrolifera sull’economia reale rischiano di diventare sempre più drammatiche nei prossimi mesi. La Cina e l’India, costrette ad abbandonare i "prezzi politici" dei carburanti, non soltanto si espongono al malcontento dei consumatori e alle tensioni sociali, ma possono rallentare la loro crescita che è per il resto del mondo l’unica speranza di salvezza dalla recessione. In Europa l’ultima locomotiva - a mezzo servizio – che ci resta, e cioè la Germania, dovrà sacrificare una parte dei suoi consumi per far fronte al rialzo del 66% della benzina alla pompa. Questo significherà anche minor domanda di moda o mobili o elettrodomestici made in Italy sui nostri principali mercati di sbocco.
C’è almeno un effetto collaterale positivo, che può derivare dalla bolla finanziaria sul petrolio? I mercati, a modo loro, svolgono una funzione di supplenza. L’economista americano Kenneth Rogoff, ex direttore generale dei Fondo monetario internazionale, lo ha spiegato in questi termini sul Sole24 Ore: chi sospinge esageratamente al rialzo nel breve termine i prezzi del petrolio, "sta facendo molto di più per la difesa dell’ambiente di quanto non facciano i politici occidentali che cercano di prolungare l’epoca del consumismo occidentale eco-insostenibile".
Il gioco d’azzardo della speculazione, in quanto scommette in anticipo su trend di lungo periodo che esauriranno le risorse energetiche, dovrebbe servire ad accelerare le nostre reazioni. Finora però questa funzione è stata scarsamente efficace. L’Unione europea si è fermata a Kyoto: come se la sua adesione a quel trattato fosse un certificato di buona condotta sufficiente, in attesa che altri si adeguino.
Ma l’Agenzia internazionale dell’energia calcola che il costo delle emissioni carboniche alla "Borsa di Kyoto" dovrebbe quadruplicare, per costringerci davvero a cambiare modello di sviluppo. Intanto l’inverno prossimo basteranno uno o due gradi di freddo in più, e saremo tutti di nuovo alla mercè del signorMedvedev, alias Putin.
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