«Il 2005 è arrivato e se ne è andato velocemente. Abbiamo iniziato l´anno portando sulle spalle una lunga storia di fallimenti, delusioni e di promesse mancate. Assieme ad una profonda preoccupazione per le sfide future. Mi ricordo di quando ero seduto con voi in una sala riunioni del Lingotto all´inizio del 2005 e vi ho detto che avreste raggiunto gli obiettivi e che nonostante tutte le difficoltà, non vi avrei permesso di mancarli. Mi ricordo anche dello sguardo perplesso e incredulo sul volto di alcuni di voi mentre guardavate questo uomo che in vita sua non aveva mai costruito o venduto una automobile, ma era così determinato nel costruire il futuro. Il vostro futuro. Bene, un anno è passato e voi avete raggiunto gli obiettivi. Anzi, li avete raggiunti e superati.
Quello che sapevo allora e che ho imparato durante la mia crescita come leader è che la cultura, il collante delle organizzazioni, non è solo una parte della vita aziendale: è l´essenza stessa della vita. Questo collante è tenuto assieme, continuamente, incessantemente da tutti i membri di un gruppo, e non dalle azioni di un singolo individuo.
Adesso noi dobbiamo completare quello che abbiamo iniziato nel 2005, con precisione e con la stessa passione che ci ha portato fino a qui e che ci ha permesso di celebrare il nostro primo piccolo successo». «Tra gli indigeni dell´Africa sub-sahariana è diffuso lo spirito di ubuntu. Questa parola fa parte di una frase più lunga, umuntu ngumuntu nagabantu, che tradotto letteralmente dallo Zulu vuol dire "una persona è una persona grazie agli altri".
Quando tu ti muovi in questo ambiente, la tua identità, quello che sei come persona, deriva dal fatto che sei visto e riconosciuto come una persona dagli altri. Questo si riflette nel modo in cui le persone si salutano. L´equivalente di "salve" è sawu bona che letteralmente significa "ti vedo". La risposta è sikhona, "sono qui". Quello che è importante nello scambio di saluti è che non esisti fino a quando non sei riconosciuto. Le implicazioni di questi usi sociali sono importanti. Nel mondo occidentale noi pensiamo che sia normale non salutare qualcuno quando siamo sotto pressione per lavoro o altri impegni. Nel mondo di Ubuntu questo annullerebbe l´esistenza dell´altro. Il riconoscimento da parte degli altri è quello che ci rende persone. Senza questo riconoscimento non esistiamo.
Nel rendere Fiat un grande gruppo, il nostro compito è di affrontare questa enorme sfida con il reciproco rispetto e predisposizione che fanno parte dello spirito di Ubuntu. La forma e il significato di Fiat dipenderanno dalle aspirazioni e dall´impegno di coloro che la guidano. È´ una straordinaria responsabilità, ma non c´è niente di meglio nella vita. Da parte mia, quale vostro leader, vi posso dire una sola cosa. Vi vedo. Sono lieto che siate qui».
La lettera finisce qui. Quello che intendo dire è che il rispetto per gli altri deve rimanere un valore essenziale in tutto quello che farete. E´ l´unica cosa che ci rende davvero persone. Rispetto per gli altri significa soprattutto rispetto per le diversità. Il progresso dipende in gran parte da quanto saremo in grado di costruire una società pluralista e multiculturale. Tutto questo richiede una grande apertura mentale.
Credo che ci siano due modi per affrontare le sfide di un´epoca globale. Il primo è quello di restare concentrati su se stessi. Di pensare che la propria cultura e le proprie convinzioni siano le uniche valide. Di credere che la verità e la ragione stiano sempre da una stessa parte. Di arrogare a sé il diritto di insegnare agli altri. Il secondo atteggiamento, invece, è quello di chi ascolta. Di chi è consapevole che esistono altri valori e altre culture e che ci sono tradizioni e aspettative differenti. Questo, ovviamente, nel rispetto delle regole e dell´ordine sociale, che sono elementi necessari in ogni comunità. Si tratta di due strade molto diverse. La prima è più semplice e più rassicurante. La seconda è senza dubbio più laboriosa, perché richiede di porsi molte domande e di farsi venire tanti dubbi. L´una non porta a nulla se non al conflitto, l´altra apre una prospettiva di crescita collettiva. L´una ti rende straniero, l´altra cittadino del mondo.
Le prospettive che abbiamo di fronte sono quanto mai aperte. La forza del libero mercato in un´economia globale è fuori discussione. Nessuno di noi può frenare o alterare il funzionamento dei mercati. E non credo neppure sia auspicabile. Questo campo aperto è la garanzia per tutti di combattere ad armi pari. E´ l´unica strada per avere accesso a cose che non abbiamo mai avuto prima. Ma l´efficienza non è ? e non può essere ? l´unico elemento che regola la vita. Ci sono problemi più grandi, ai quali il mercato non è in grado di dare soluzione. E non credo riuscirà mai a farlo. Voglio citare le parole di una ragazza di 25 anni. Si chiama Asa. E´ una musicista che arriva dalla Nigeria e sta avendo un certo successo. Il suo brano d´esordio è già in testa alle hit europee e a marzo ha fatto il suo primo tour in Italia. Dovremmo fare tesoro di quello che dice: «Voglio che la mia Africa tocchi la gente. Voglio ridare speranza al mio popolo e parlare a loro nome. Ci sono molti artisti che parlano ai potenti della terra per cercare di risolvere i problemi che ci affliggono. Io invece voglio parlare ai giovani africani: dobbiamo cominciare a riflettere, a cambiare atteggiamento e prendere in mano le redini del nostro destino». Questi problemi chiamano in causa un aspetto più profondo, quello della responsabilità morale del nostro operato.
Nel 1999 Nelson Mandela, allora presidente della Repubblica del Sud Africa, fu invitato a parlare al World Economic Forum di Davos sugli effetti della globalizzazione. Ho avuto la fortuna di essere tra coloro che lo hanno ascoltato. Nel suo discorso, Mandela toccò alcuni tra i temi più spinosi con i quali tutti noi abbiamo a che fare. Ne ho fatto riferimento in altre occasioni, perché credo che sia questa la vera sfida dell´umanità. Vale la pena citarlo di nuovo: «È mai possibile che la globalizzazione porti benefici solo ai potenti, a chi ha in mano le sorti della finanza, della speculazione, degli investimenti, delle imprese? E´ possibile che non abbia nulla da offrire agli uomini, alle donne e ai bambini che vengono devastati dalla violenza della povertà? E ora capirete perché quest´uomo ormai vecchio, quasi al tramonto della propria vita pubblica e alle soglie del nuovo secolo, al quale avete concesso il privilegio di prendere commiato da voi, abbia sollevato questi aspetti così concreti di questioni ancora irrisolte». Tutto ciò richiede di prendere coscienza che non potranno mai esserci mercati razionali, sviluppo e benessere se gran parte della nostra società non ha nulla da mettere in gioco al di fuori della propria vita. Talvolta mi chiedo se abbiamo modelli mentali così rigidi che - anche di fronte a chiari segnali di minaccia dal mercato - continuiamo a restare indifferenti nel nostro benessere e non proviamo disagio di fronte a chi non ha nulla. Trovare una soluzione ai problemi sollevati da Mandela significa trovare una soluzione alla gestione del libero mercato. Abbiamo il dovere di contribuire a colmare questo divario. Abbiamo il dovere di riparare le conseguenze che derivano dal funzionamento dei mercati. Ognuno nel suo piccolo. Questo è un impegno che riguarda tutti. È una grossa responsabilità ed è la sfida più alta che possiamo e dobbiamo affrontare. Ma sono le grandi sfide che danno un significato più profondo a quello che siamo.
SERGIO MARCHIONNE - AD Gruppo FIAT - Politecnico di Torino - 28-05-2008
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