Ho conosciuto Caterina Cavina qualche tempo fa e ho appena finito di leggere il suo libro. Confermo ciò che lei mi disse subito quando ne parlammo: il titolo del libro porta ad equivocare ciò che sta scritto nel suo contenuto. Penso che dal punto di vista del marketing questo abbia giovato molto alla performance sulle vendite.
Buon per Caterina che se lo merita.
Il libro è piacevole e nei vari capitoli vi ho scorto alcuni riferimenti e immagini (non so quanto volontarie) a certi racconti di Stefano Benni (ricordate Bar sport ?) e ai film del nostro Federico Fellini. Uso volutamente il termine nostro perché da romagnolo quale mi sento, mi è stato forse più facile immaginare certe figure o situazioni grottesche ambientate proprio sul confine emiliano-romagnolo. Queste popolano tutto il libro creando più volte un effetto dicotomico: a dispetto del racconto che appare spiritoso e anche semplice nel suo progredire nella storia, si avverte per tutta la durata del libro non solo tristezza, ma anche sarcasmo e solitudine. Più si avanza nella lettura, più trasmette una sorta di fatalismo atavico vagamente “verghiano”. Solo in un punto sgorga poesia, un piccolo punto, come una gemma incastonata nel racconto, quasi l’autrice volesse in qualche modo rivelare la sua vera identità.
Caterina è una persona dolce, pacata e quasi spaventata da tutta questa attenzione di cui è fatta oggetto da riviste, giornali e media in genere.
Se ha voluto inserire uno sfondo autobiografico, forse ha cercato di comunicare che in lei c’è una grande sensibilità e una grande sofferenza vinta, ma non dimenticata. Consiglio assolutamente.
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