lunedì 7 aprile 2008

La Tradizione del Lòm a Merz


La Romagna è una terra storicamente votata all’agricoltura, attività, come tutti sanno, soggetta alle avversità metereologiche. Per questo motivo la tradizione contadina del passato voleva che per scongiurare la malasorte venissero fatti dei riti propiziatori come i fuochi magici o, come si dice da queste parti, i Lòm a Merz (i lumi di marzo). L’accensione di falò propiziatori intendeva celebrare l’arrivo della primavera e invocare un’annata favorevole per il raccolto nei campi, ricacciando il freddo e il rigore dell’inverno. Il suo significato era quello di incoraggiare e salutare l’arrivo della bella stagione, bruciando i rami secchi e i resti delle potature. I fuochi volevano da una parte fungere da elemento purificatore, dall'altro evocare ed invocare il calore e la luce della primavera che stava arrivando portando con sé la rinascita della vegetazione e la promessa dei futuri raccolti. Era normale anche cantare strofe augurali come questa: "lom a merz, lom a merz, una spiga faza un berch; un berch, un barcarol, una spiga un quartarol; un berch, una barchetta, tri quatrèn una malètta" che, sostanzialmente, erano invocazioni tra il sacro e il profano per richiedere un abbondante raccolto di grano.

Era tipico per questa occasione radunarsi nelle aie per un evento che rappresentava, e non erano molti nella società del tempo, un momento di festa e di socializzazione. Si intonavano canti e si danzava, si mangiava (predominante la presenza di focacce dolci e ciambella, ma qualche volta veniva anche abbrustolito del pane e “spazzato” con aglio, l’olio era prezioso, o venivano fatte delle zuppe condite con i prodotti disponibili al momento), si beveva (molto) vino e, cosa più importante, era un momento di grande divertimento e di inizio di qualche amore. La tradizione di “fare lòm a merz” in questo modo si è protratta in Romagna fino alla fine degli anni ‘30, perdendo poi quasi definitivamente il suo carattere di festa dopo la guerra.
Sarà capitato a molti di passare nelle campagne romagnole fra la fine di febbraio ed i primi di marzo, al tramonto e vedere in lontananza dei falò che, nell’incedere delle tenebre assumono una valenza quasi da “fuochi magici” e per un po’ attraggono il nostro sguardo e la nostra mente.

In questo periodo assumeva particolare importanza la festa dedicata a San Giuseppe che si esprimeva in feste paesane e in gite con pranzi e merende nei boschi, sui prati, nelle pinete. II rito del mangiare all'aperto, a contatto con la terra e la natura, era considerato segno ed auspicio dell'arrivo della bella stagione. Fra i cibi sempre presenti in queste occasioni si possono ricordare i salumi, le uova sode, le insalate di campo (crespini, pimpinelle radicchi, valeriana) magari arricchita con i “soliti” bruciatini e accompagnato con quel bel pane bianco fatto nei forni delle case o con della focaccia, il tutto annaffiato con bottiglie di vino nero. Una particolarità di questa festa, forse poco nota ai più, consisteva nell’usanza, da parte delle ragazze “da marito”, di osservare la vigilia il giorno antecedente a quello di San Giuseppe e di invocarlo con una curiosa filastrocca: "San Jusef San Jusef fasì che a feza e pet"(Osservavano la vigilia perché diversamente San Giuseppe Pellegrino passando per le case col suo pialletto avrebbe tolto via ciò che loro desideravano tanto: l'abbondanza dei seni... come sono cambiate le cose, oggi forse non si farebbe più vigilia proprio per ottenere l’effetto opposto…).
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna del 4 aprile 2008

Nessun commento: