Evviva! C’è qualcosa di nuovo nell’aria… si torna all’antico.
No, non è una contraddizione, proprio qualche giorno fa leggevo un’intervista in cui lo Slow Food evidenziava come oggi la loro comunicazione metta in evidenza la necessità di assaporare con i giusti tempi il cibo per coglierne non solo la qualità, ma la “quintessenza” che avvolge il luogo del Convivio in cui si consuma il cibo: tatto, olfatto, vista ed emozioni possono rendere indimenticabile un’esperienza gastronomica. In questi mesi poi è stato un fiorire di libri che sviluppano quello che definisco “l’elogio della lentezza”. Per questo dico che si torna all’antico con queste novità, perché chiunque ricordi (anche non troppo tempo fa, diciamo 40 anni ?) molte cose venivano vissute con un altro ritmo.
Ora non voglio cadere nel luogo comune “una volta si che…”, assolutamente, sono io stesso una persona molto impegnata che vive anche troppo velocemente le cose che fa, ma sul cibo (per ora) mi sono dato delle regole che ritengo possano arricchirmi interirormente, offrendomi soddisfazioni che vivo consapevolmente.
Con la mente riavvolgo spesso il “film” dei miei ricordi, le cene da uno zio contadino di mio padre che ancora a metà degli anni ’70 viveva con lampade a kerosene, tirava l’acqua dal pozzo e metteva il “prete” nel letto d’inverno perché non aveva riscaldamento, quelle cene erano precedute e vissute con una ritualità scandite da tempi senza tempo. Le tavole che mi parevano enormi, piene di parenti, le porzioni abbondanti, sostanziose, ricche di condimento perché gli ospiti non rimanessero con la fame, maiale, coniglio, pecora, una certa trivialità che arrivava parimenti alla crescita di tasso alcolico nei convenuti dato dal vino “nero”, il seguito della cena con i dolci, la ciambella nell’albana, tutto senza che qualcuno dovesse “andar via subito”. Altri tempi, come raccontava mio padre che da bambino al momento della frutta riceveva da mio nonno la buccia delle pere o delle mele non il frutto, perché chi lavorava nei campi aveva naturalmente necessità di sostanza, chi portava a casa “da mangiare” aveva priorità. Mi viene da sorridere se penso che la società si è capovolta anche in questo.
Tornando alla possibilità di gustarci a tutto tondo le nostre emozioni ritengo che oggi si possano suddividere le ristorazioni in alcune categorie: la prima è fatta di luoghi in cui ci si ciba e basta, è l’attimo che è già passato; la seconda è costituita da quei locali in cui la cucina è un gradino sopra, sembra più curata, ma di cui non rimane memoria una volta usciti, aggiungo io “senz’anima”; la terza è quella più interessante dove il luogo è stato scelto, arredato e curato, dove la cucina è passione e si sente, si avverte, si assapora, dove la disposizione dell’arredo, i colori, l’armonia del locale ti invitano a prolungare l’esperienza, dove ti senti come a casa e dove vuoi tornare perché ti fanno sentire bene e dimentichi la frenesia del “fuori”; in ultimo c’è la categoria di quelli “oltre” che non fanno più cugina, ma bio-ingegneria, ricerca continua della materia, che fanno cose talmente ricercate che le capiscono solo loro e un certo numero di persone (anche troppo numeroso purtroppo) che per noia, snobismo, moda, ricchezza o altro sono anche disponibili a pagare cifre assurde e magari mettersi in lista d’attesa a tre-sei mesi.
E’ la terza categoria quella più interessante, quella a cui bisogna tendere per ritrovare il gusto e la soddisfazione della lentezza del Convivio, fatta di ristorazione non per forza di primissimo livello, ce ne sono molti in seconda linea (emergenti), fatta anche da Maestri di Cucina o Titolari giovani, ma che hanno la passione che li accomuna, la memoria della Tradizione unito al piacere di rinnovare senza stravolgere. Sono i luoghi deputati a rimanere nel cuore dei “Gastronauti” che si vogliono riappropriare del proprio tempo per il Convivio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna